Sta facendo scalpore la dichiarazione della Deputata Ciprini sul cognome paterno.
Perché la sua dichiarazione, e non quella di Buttiglione, ad esempio, che per giustificare l’importanza del patronimico si appella addirittura a Shakespeare? (ed è molto ridicolo, secondo me, se si pensa che proprio Giulietta, in una delle scene più celebri della tragedia, recita: “Oh Romeo, Romeo, perché sei tu Romeo? Rinnega tuo padre, e rifiuta il tuo nome! O, se non lo vuoi, tienilo pure e giura di amarmi, ed io non sarò più una Capuleti. Che cosa c’è in un nome? Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo.”)
Molto probabilmente perché è perturbante leggere una donna che afferma con candore:
“Nel caos più totale, nell’inconsapevolezza e nell’ignoranza di quasi tutta l’aula circa il testo che si stava votando (compresa la mia, che mi sono accorta dellesistenza di tale proposta di legge soltanto 2 giorni fa), è andato in scena il tentativo di annacquare la cultura patriarcale, per sostituirla con un nuovo paradigma non meglio specificato.
Il tutto perché CE LO CHIEDE l’EUROPA (in particolare Consiglio DEuropa e Corte europea).
La strategia comunitaria mira a una trasformazione veramente profonda della società e cè da anni una sovrapposizione continua tra i concetti di parità e uguaglianza, che mescola, confonde e porta avanti questioni legittime (quali promozione della parità nella vita lavorativa) e questioni più discutibili, quali il promuovere il cambiamento dei ruoli maschili e femminili.“
Siamo abituati a pensare che ogni donna instintivamente si ponga nei confronti del patriarcato con atteggiamento polemico, piuttosto che in atteggiamento di aperta difesa. (O meglio: io sono abituata a pensarlo…) E invece spesso, spessissimo non è così. Ci sono donne aggrappate al ruolo che occupano nella società patriarcale, determinate a rivendicare contro altre donne il “diritto” ad essere sottomesse, per il semplice motivo che non riescono ad immaginare un mondo in cui sono costrette a guardare alle persone reali celate dietro gli stereotipi maschili e femminili che rendono tanto facile interpretare il mondo che ci circonda.
In antropologia, con patriarcato si intende il tipo di sistema sociale in cui vige il “diritto paterno”, ossia il controllo esclusivo dell’autorità domestica, pubblica e politica da parte dei maschi più anziani del gruppo.
A proposito del fatto che in una società patriarcale il potere non è equamente distribuito fra tutti i maschi, ma ci sono maschi con più privilegi e autorità di altri, ci dice la Ciprini:
“Ho il fondato sospetto che l’Ue stia sfruttando da anni la propaganda di genere non già per elevare la condizione della donna, ma per abbassare quella dell’uomo comune, per demolire la cultura patriarcale, oramai diventata scomoda e pericolosa per il sistema che si vuole implementare, funzionale al NWO ovviamente.
(…)
Questo perché il vertice della piramide del potere è stretto e c’è posto solo per una ristretta elitè maschile, quindi meglio depotenziare tutti gli altri, rendendoli subalterni.”
La Ciprini ci parla di “piramide del potere”, e questa espressione mi rimanda immediatamente alla memoria la piramide feudale che campeggiava nei miei manuali di storia:
Di piramidi, a dire il vero, se ne trovano parecchie nei libri di scuola:
Dove si collocano le donne in questte piramidi?
Se ci fate caso, non ce n’è mai disegnata neanche una.
In una società patriarcale, in cui la donna è praticamente invisibile, è inconcepibile che le donne possano rivendicare qualcosa per sé.
Esiste il maschio, esiste il suo comprensibile desiderio di scalare la piramide sociale, mentre il desiderio di visibilità della donna – che in questo particolare caso riguarda il comparire in una genealogia attraverso la trasmissione del cognome – non trova altra spiegazione che finire derubricato a mero strumento del maschio che in un dato momento storico affronta un’epica battaglia per raggiungere i vertici.
Non c’è nessun posto, nella piramide, per la donna. Al massimo può essere impugnata come arma, ma occupare un qualsiasi gradino, in piena autonomia, questo mai.
E’ per questo, credo, che ogni donna – più di qualsiasi maschio – dovrebbe buttarle giù, le piramidi del potere, piuttosto che impegnarsi a salire verso il vertice.
Riccio, ci sono donne che vogliono scalare la piramide come lo vogliono gli uomini, e donne (e anche uomini) a cui gliene frega poco o nulla.
Entrambi sono atteggiamenti umani
Secndo me non sanno nemmeno di cosa parlano, esempio: “Questo perché il vertice della piramide del potere è stretto e c’è posto solo per una ristretta élite maschile, quindi meglio depotenziare tutti gli altri, rendendoli subalterni.” Che vuol dire? Chi è nel gradino sottostante è già subalterno e derubato di libertà e potere. Cosa c’entra il cognome? Poi forse non sanno che il cognome, è una cosa recente, è nato con l’anagrafe istaurata d Napoleone.. Precedentemente solo i nobili, si tramandavano il cognome, per tutti gli altri il cognome era il nome del pare, o del luogo d’origine, della professione, il soprannome…
Ah beh! Eliminare il patronimico, ovvero il simbolo dell’appartenenza della prole al padre, sarebbe un passo simbolico verso il “cambiamento dei ruoli maschili e femminili”. Niente più pater familias che detiene il controllo esclusivo dell’autorità domestica, pubblica e politica… E le conseguenze sarebbero terribili: “Si vuole colpire il patrimonio androtecnico, inteso come insieme di strumenti, ruoli, pratiche, valori, norme, modi di pensare, sentire e agire di educazione al maschile, facendo sì che intere generazioni di uomini crescano senza più riferimenti dell’universo maschile.” Forse si avvicina la fine del mondo 🙂
Ma questi signori erano il nuovo che avanza, che si sono subito trasformati in restaurazione del vecchio.. senza dimenticare che anche la democrazia è una minaccia al patriarcato… e la mobilità sociale? Dove andremo a finire quando i figli degli operai vogliono fare il dottore? Andiamo bene, se il portavoce di un partito del parlamento italiano, definisce la democrazia come paradigma non meglio specificato..
Si, è piuttosto paradossale che chi si è presentato come “demolitore della casta” poi decida di annoverare fra le sue motivazioni la tutela dei “patriarchi”…
Veramente il cognome è esisteva nell’Antroca Roma, poi se ne perse l’uso con la decadenza del’Impero ma già nel 1200 si riprese ad usare i cognome. Il Conclilio diTrento stabilì l’anagrafe dei battesimi, dove inutile dire che il cognome trasmesso era quello paterno.
Gina, se permetti, la storia è un po’ più lunga e un po’ più complicata: nella Roma di età pienamente storica, diciamo in epoca repubblicana (fine VI-fine I secolo a.C.) si era formato e assestato un sistema onomastico, che riguardava gli uomini di condizione libera, ovvero i cittadini romani, detto dei “tria nomina”, cioè dei tre nomi, con i quali si identificava il cittadino, a qualunque classe di censo appartenesse; e dico classe di censo dato che ormai la parità di diritti civili e politici tra i due vecchi gruppi dei patrizi e dei plebei era stata acquisita, nel corso dei primi due secoli (V-IV). Per fare l’esempio classico, il sistema onomastico si presentava così: Caius (praenomen) Iulius (nomen) Caesar (cognomen). Di questi “tria nomina”, il primo era il nome individuale: insomma, il nome con cui lo chiamavano la mamma, gli amici, etc. Il secondo era il nome proprio della “gens”, cioè del ceppo familiare più ampio, nome gentilizio che si trasmetteva di padre in figlio. C’erano le antiche “gentes” patrizie, e le “gentes” plebee, altrettanto antiche, che potevano essere più o meno importanti e far parte della “nobilitas” plebea (vedi sopra sulla parità di diritti acquista) ma tutti, anche i poveracci, avevano un gentilizio, anche se non famoso e non importante. Il “cognomen”, invece, era il terzo dei “tria nomina”, e designava un ramo minore della “gens”, era, insomma, il nome di famiglia di un raggruppamento più ristretto all’interno di quello più ampio che era la “gens”. Anche quest’ultimo nome si trasmetteva di padre in figlio. E anche lo schiavo liberato (= liberto) prendeva i “tria nomina”, acquisendo il gentilizio (“nomen” = Iulius) dell’ex-dominus (padrone) che da allora in poi diventava il “patronus”, in un rapporto di tipo “clientelare”. Il liberto assumeva di solito, come terzo elemento del sistema onomastico (=cognomen) il proprio nome personale d’origine, che poteva essere di lingua greca o altro, mentre il primo nome (=praenomen) era sempre uno dei tipici, e limitati, “praenomina” romani (Caius, Marcus, Lucius, etc.). Questo sistema si andrà però complicando in età imperiale e per diversi motivi, primo fra tutti l’esigenza, avvertita nelle classi sociali più elevate, di aggiungere ai “tria nomina” (nome personale/praenomen, gentilizio/nomen, nome di famiglia/cognomen) anche i nomi peculiari del ramo materno se questo era importante: e quindi si formano doppi “cognomina”, di cui uno, o più, dal ramo materno, “cognomina” derivati dal gentilizio materno, etc. Ma quel che ci interessa è che, nel momento in cui si forma e si assesta il sistema dei “tria nomina” (età repubblicana, vedi sopra) questo sistema non riguarda affatto le donne, anche se di condizione libera, e questo perché le donne non sono cittadine di pieno diritto, mentre il sistema onomastico è funzionale all’esercizio della cittadinanza, che è prerogativa maschile. Dunque, le donne si chiamano, di solito, con il solo gentilizio (= nomen), che si trasmette in linea materna: Iulia, Fabia, Claudia, e non hanno un praenomen, ma più spesso un cognomen individuale, come Prima, Secunda, Maior, Minor, per distinguere tra le sorelle con lo stesso gentilizio. Non era necessario, insomma, che le donne fossero identificate al di fuori del nucleo familiare, e quindi un nome (il gentilizio, paterno) bastava , al più, due e, quindi, il “cognomen”, che poteva essere individuale (Antonia Maior, Antonia Minor) oppure derivare dal nome di famiglia, ed essere quindi un “cognomen” vero e proprio come quello degli uomini della stessa famiglia, per es.: Caia Caecilia Metella. Ma con questo siamo già alla fine della repubblica. Con l’età imperale anche il sistema onomastico femminile cambia, insieme al cambiamento del diritto civile che, tra alti e bassi, consegna un po’ di potere in più alle donne, e in particolare a quelle delle classi elevate. E comincia, quindi, ad essere avvertita l’esigenza di un sistema onomastico più ricco anche per le donne, ma anche l’imperatrice Iulia Domna, all’inizio del III secolo .C., con tutto il suo prestigio e il suo potere, avrà solo due nomi (gentilizio e cognomen), mentre il marito, l’Imperatore Settimio Severo, ce ne avrà una sfilza. La nuora di costei, moglie del figlio dei due, Caracalla, quello che darà la cittadinanza a tutti gli uomini di condizione libera dell’impero (212 d.C.), di nomi ce ne aveva tre: Publia (preanomen: uno di quelli antichi, di origine repubblicana) Fulvia (nomen,/gentilizio paterno: Fulvius) Plautilla (cognomen, adattamento del cognomen paterno: Plautianus), il che non le impedì di essere esiliata e poi fatta uccidere dal coniuge (211 a.C.). Poi viene la fine del mondo antico, e l’alto medioevo, e anche il sistema onomastico si trasforma. Ma quella è un’altra storia.
Grazie! 🙂
Vorrei quasi che fosse così, ma, temo, che in parlamento come sui blog, come al bar, quasi tutti parlino senza minimamente informarsi di ció di cui parlano, che poi la prima idea che viene in mente sia quella banalmente piú reazionaria, viene di conseguenza. Il vero dramma del presente é l’incompetenza.
Ma davvero quelle frasi tra virgolette le ha scritte questa tale signora parlamentare? No, dimmi che sono una tua interpretazione.
La trovi sulla sua pagina facebook. Parola per parola.
Cioè, ma sarebbe un caso da studiare, dopo un adeguato intervento di supporto terapeutico. Che caspita sarebbe il “patrimonio androtecnico”, per dirne una a caso?
Non lo sai? Hanno inventato tutto i maschi, se non fosse per loro saremmo ancora nelle caverne. Femminista ingrata! 😉
Allora bisogna che avvertiamo li antichi, i quali, con tutta la loro nota misoginia, si incaponivano ad attribuire l’invenzione dell’agricoltura ad una dea, l’invenzione della tessitura ad un’altra dea, la tutela dei mestieri, a partire dai bronzisti, sempre ad una dea. Tanto erano dee, importante era che le donne umane non avanzassero pretese. Ci ricorda qualcosa?
Ah ecco, forse è per quello che quando apro il sito linkato c’è una pubblicità che mi annuncia “scioccanti rivelazioni sul cervello”. A posto così.
A proposito della famigerata proposta di legge… agghiacciante è stato il commento di Camillo Langone sulle pagine de “Il Foglio”: medioevo prossimo venturo, puntata numero… hopersoilconto! 😦
http://la-cassandra.blogspot.it/