Una traduzione da Why I Called 911, di iO Tillett Wright.
Ho chiamato il 911 perché lei non lo avrebbe mai fatto. Perché ogni volta che accadeva, il suo primo pensiero era di proteggerlo. Perché ogni volta che accadeva, l’uomo dolce e amorevole a cui tutti tenevamo così tanto tornava profondendosi in scuse, giurando e spergiurando che aveva capito quanto terribile fosse ciò che aveva fatto e promettendo di non farlo mai più. Lo amavamo tutti, ma soprattutto, soprattutto lei lo amava, e voleva credere che quel comportamento non si sarebbe ripetuto. Gli episodi di violenza sono iniziati con un calcio su un aereo privato, poi si è trattato di spinte e di pugni occasionali, fino a quando, infine, a dicembre, lei ha descritto una vera e propria aggressione e si è svegliata sul cuscino coperto di sangue. Lo so perché sono andata a casa loro. Ho visto il cuscino con i miei occhi. Ho visto il labbro rotto e i ciuffi di capelli sul pavimento. Ho ricevuto la telefonata immediatamente dopo che era successo, ho sentito le sue urla e il pianto, una donna stoica ridotta a singhiozzare. Ho compreso il suo dolore. Era stato anche mio amico, una persona che amavo moltissimo. Una persona che una volta avevo definito fratello. Una persona con cui avevo riso dell’assurdità dei media e delle loro affermazioni piccanti sul mio ruolo nella loro famiglia. Una persona che è venuta in mio aiuto nell’ora più buia, a cui ho riconosciuto il merito di avermi salvato la vita, con cui ho vissuto per un anno su suo invito mentre guarivo e lavoravo. Sapevo che era tenero e gentile, con un carattere irascibile e un lato oscuro, ma con un cuore d’oro. Non volevo crederci, fino a quando non ho visto la devastazione. Quando chiami qualcuno tuo fratello, ti impegni anche a sfidarlo quando ha torto. Mentre lei, tremando e piangendo, descriveva quell’uomo di 80 chili che con tutto il peso del suo corpo colpiva con una testata la moglie di 55 chili in un impeto di rabbia, ho scoperto che un confine nel mio cuore era stato superato e non si poteva tornare indietro. Ho assistito in prima persona alla sconcertante confusione mentale in cui precipita una persona maltrattata, tentando di bilanciare il desiderio di proteggere il suo aggressore e la consapevolezza che il suo viso gonfio è inaccettabile. Ho ascoltato mentre si interrovaga e interrogava sulle cose che forse aveva fatto per provocarlo, in che modo lo aveva fatto arrabbiare al punto di fare ciò che aveva fatto. Mi sono seduta e ho ascoltato, il mio cuore doleva perché ci tenevo così tanto a quell’uomo tenero e generoso dentro tutta questa rabbia, eppure … l’inequivocabile nocciolo della questione è non c’è nulla che lei avrebbe mai potuto dire o fare per meritarsi ciò che lei descrive, lui che la trascina su per le scale per i capelli, le dà un pugno nella parte posteriore della testa, la soffoca fino a farla quasi svenire e le fracassa la fronte sul naso fino a quando non si è quasi rotto.
Diciamo che la violenza domestica è grave, la condanniamo. Ma al contempo creiamo il terreno più fertile per farla prosperare.
Il ciclo dell’abuso è perpetuato da ogni persona che afferma che è più probabile che la vittima si sia presa pugni da sola piuttosto che affrontare le prove concrete della violenza che ha di fronte.
La colpevolizzazione della vittima è proprio ciò che permette ai maltrattanti di cavarsela dopo questo tipo di comportamento.
In questo momento, ogni donna maltrattata nel mondo guarda questo circo mediatico, e interiorizza il messaggio che se si faranno avanti per chiedere aiuto, se interromperanno il ciclo dell’abuso, saranno chiamate arrampicatrici sociali, imbroglione e saranno accusate di aver raccontato il falso solo per ricevere attenzione.
Sto parlando ad ogni giornalista, ogni editore, ogni persona che inserisce un commento sotto un articolo puntando maleducatamente il dito. E’ un linciaggio. Un coro assordante.
Ogni volta che vi chiedete una spiegazione del perché l’avrebbe colpita manda il chiaro messaggio che può esistere un motivo per cui qualcuno colpisce il coniuge. Non importa cosa è stato detto tra i due amanti, non importa se la storia d’amore stava per finire, perché nulla merita questa risposta. Nessuna persona, mai, dovrebbe subire violenza per mano della persona che ama. Ho visto una donna con uno spirito infranto andare in televisione la notte successiva, coperta di trucco, sorridendo con un labbro sanguinante, e quasi cadere dalla sedia quando qualcuno le ha appoggiato una mano sulla spalla perché non sapeva cosa fosse in arrivo. Ecco perché, quando è successo di nuovo, quando ero al telefono con entrambi e ho sentito il telefono cadere, ho sentito lui dire: “E se ti strappassi i capelli?” e l’ho sentita gridare aiuto, come tante altre volte prima mi sono chiesta se dovevo infrangere il codice del silenzio che circonda le celebrità e chiamare la polizia, e in una frazione di secondo ho deciso che, sì, stavo per farlo. Perché mi sono resa conto che fintanto che proteggevo l’abusatore dalle conseguenze delle sue azioni, stavo legittimando l’abuso e non potevo più essere complice. Ho dovuto difendere la mia amica, e quello che credo nel mio intimo sia il codice di condotta in base al quale gli esseri umani devono comportarsi l’uno con l’altro. Che lo amassimo o no, non c’entra niente. Quando si tratta di violenza, “l’amore” non rientra più nell’equazione.
Per approfondire:
Amber Heard’s Friend iO Tillett Wright Pens Powerful Letter About Calling 911