Ho incontrato Adelina una sola volta, nell’ottobre del 2015. Era fra i relatori di un convegno organizzato ad Assisi dall’Associazione Federico nel Cuore, che fra i vari temi affrontava anche quello della prostituzione inserendolo nel contesto più vasto della violenza contro donne e bambini.
In quella occasione Adelina si presentava al pubblico come “sopravvissuta alla prostituzione”. Non “sopravvissuta al traffico di esseri umani”, né “ex prostituta”, ma “sopravvissuta alla prostituzione”. Una scelta, la sua, per nulla casuale.
La vicenda di Adelina, grazie agli articoli di cronaca che hanno narrato del suo suicidio, ormai la conosciamo tutti: rapita, violentata, venduta, prostituita sulla strade italiane per quattro interminabili anni, Adelina ha trovato la forza di fare quello che in poche hanno il coraggio di fare, ovvero denunciare e far condannare i suoi aguzzini.
O meglio, basandoci sul lavoro di informazione sul fenomeno della prostituzione di strada che ha cercato di portare avanti dopo la sua liberazione, dovremmo dire che è riuscita a far condannare una parte dei suoi aguzzini.
Perché – possiamo essere d’accordo con lei o non esserlo (per quanto non esserlo suoni ridicolo alla luce delle immagini che Adelina aveva fornito a riprova della sua tesi) – per Adelina c’erano dei complici del traffico di donne e del loro sfruttamento sessuale che in Italia rimangono impuniti a causa di un vuoto legislativo: i clienti.
Adelina era stata una vittima del crimine organizzato e di una società patriarcale così abituata a considerare la donna un oggetto di consumo da essere diventata sorda alle richieste di aiuto. Quindi era diventata un’attivista, decisa a fare la differenza per tutte quelle donne intrappolate in un’industria disumana che chi avrebbe il potere di intervenire tratta come un mero problema di decoro urbano.
Adelina credeva che lo strumento migliore nella lotta al traffico di donne finalizzato allo sfruttamento sessuale fosse la criminalizzazione del cliente.
Ci credeva non perché negasse l’esistenza di donne che scelgono la prostituzione al di fuori del sistema coercitivo della tratta, ma perché, alla luce della sua esperienza e quella di tante donne che aveva incontrato nel suo percorso di emancipazione dalla schiavitù, era profondamente offesa dall’impunità di tutti quei clienti che, consapevoli o indifferenti al pericolo di farlo, alimentano ogni notte il mercato di carne umana.
Come biasimarla?
Se ci fermassimo a leggere la prima parte della storia di Adelina, l’eroismo con cui si è rivoltata contro i suoi aguzzini, la sua devozione nei confronti di quelle forze dell’ordine che l’avevano coivolta prima e coaudiuvata poi nella lotta agli sfruttatori, l’impegno profuso nel sensibilizzare la collettività sulla riduzione in schiavitù di tante donne e bambine – saremmo portati a credere che una donna del genere, una donna capace di mettere a rischio la sua incolumità per agire contro il crimine organizzato, debba essersi guadagnata la stima e la riconoscenza delle istituzioni.
La morte di Adelina, invece, ci pone di fronte ad una cruda realtà: a dispetto dell’impegno di tante persone, che fino alla fine hanno perorato la causa di Adelina affinché coronasse il suo sogno di essere riconosciuta una cittadina a tutti gli effetti, l’ultimo atto dello Stato con il suo nome sopra è stato un foglio di via.
Un foglio di via, un provvedimento destinato a “soggetti pericolosi”.
Per chi costituiva un pericolo Adelina? Oltre che per i trafficanti di esseri umani e per la coscienza di chi li foraggia uscendo in cerca di sesso a pagamento, intendo.
“Questo non è un caso che riguarda solo Adelina, questo caso è un simbolo – diceva Myrta Merlino in una puntata di di l’Aria che tira in onda su La7 nel 2018 – se le persone come Adelina questo paese le lascia sole, chi farà le denunce nel futuro, chi farà arrestare i malviventi?“
Con grande amarezza torniamo all’8 marzo del 2019: il Presidente Mattarella dedicava la Giornata Internazionale della Donna al tema “Mai più schiave”, con tanto di interviste alle vittime della tratta e consegna di premi agli studenti vincitori del concorso nazionale dal titolo “Mai più schiave” promosso dal Ministero dell’Istruzione. Quel Mattarella è lo stesso Mattarella cui Adelina si era rivolta in cerca di aiuto, lo stesso Mattarella che ha costantemente ignorato gli appelli a fare qualcosa di concreto per Adelina, lo stesso Mattarella che, in quanto Presidente della Repubblica, aveva il potere di concederle la cittadinanza italiana per meriti speciali, che l’art.9 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 riserva agli stranieri che abbiano reso eminenti servizi all’Italia.
Cosa c’è di più “eminente” di quello che ha fatto Adelina per questo paese?
Le circostanze della tragica morte di Adelina lanciano un messaggio più potente di qualsiasi verbosa manifestazione pubblica, più “educativo” di qualsiasi concorso nelle scuole, un messaggio feroce rivolto a tutte le vittime del traffico di esseri umani che sognano di liberarsi e liberare le donne dal giogo della schiavitù: se vi ribellate sarete usate e abbandonate dallo Stato proprio come siete state usate e abbandonate al vostro destino dagli uomini che vi approcciano per la strada.
Il suicidio di Adelina ha sollevato l’indignazione collettiva. In molti chiedono che si apra un procedimento affinché si indaghi sull’operato dell’Ufficio immigrazione di Pavia, che aveva imposto ad Adelina la cittadinanza albanese, sui vari uffici in giro per l’Italia che, permesso di soggiorno dopo permesso di soggiorno, si sono palleggiati la sua pratica come personaggi di un racconto di Kafka, e soprattutto sul comportamento delle autorità intervenute nelle ore subito prima della morte, che la stessa Adelina in un ultimo video di denuncia ha accusato di abusi e violenze.
L’auspicio è che la tragica morte di Adelina, che molte attiviste per i diritti delle donne in questi giorni non esitano a definire un femminicidio più che un suicidio, attiri l’attenzione sulle misure che il nostro paese prevede per contrastare il traffico di esseri umani e a supporto delle vittime di tratta.
Sapete a quanto ammonta la somma prevista per indannizzare una vittima di tratta? 1.500 euro, nei limiti della disponibilità del Fondo per le misure anti-tratta, leggo sul sito della Camera dei deputati.
E’ offensivo scrivere “indennizzo” accanto ad una somma del genere, soprattutto per il significato della parola “indennizzo”, scelta da chi, evidentemente, non ha alcuna contezza dell’entità del trauma che un’esperienza come quella che ha vissuto Adelina lascia nel corpo e nello spirito di una donna, né alcuna contezza di cosa sia lecito e non lecito, perché la tratta di certo non lo è.
1.500 euro. Sarebbe offensivo anche chiamarlo risarcimento.
“Io lo so che morirò di cancro, lo che non avrò lunga vita… ma almeno altre Adeline avranno quello che non ho avuto io”, dice Adelina nel suo ultimo video-messaggio. Adelina, nella sua vita in Italia dopo l’inferno della prostituzione, lavorava alcremente per costruire una società nella quale nessuna altra donna debba subire gli abusi che lei aveva patito. Aveva scritto dei libri, aveva lavorato alla radio, aveva prodotto delle video inchieste, era attiva sui social, partecipava ad eventi. Adelina era a tutti gli effetti un’attivista in contatto costante con molte realtà in lotta per i diritti umani. Persino del suo suicidio ha voluto fare un atto di protesta, consapevole del fatto che il dolore e la rabbia di fronte ad una sorte tanto ingiusta possono trasformarsi, di fronte all’evidenza di un’indagine che inchiodi i responsabili, in ferrea volontà nel cambiare le cose.
Per questo motivo, oggi, molte delle sue compagne di lotta storcono il naso di fronte alla decisione dell’organizzazione Non Una Di Meno di proporsi ai media mainstream come portavoce ufficiale della battaglia per ottenere giustizia a nome di Adelina. Non è un segreto per nessuna che si interessi a certe tematiche che NUDM non condivida la strategia che Adelina proponeva per il contrasto alla prostituzione, tanto che nel 2017 proprio un suo intervento provocò una scissione insanabile fra le partecipanti all’assemblea nazionale che si svolse a Roma. La decisione di NUDM all’epoca fu draconiana: seppure inizialmente era stata invitata a parlare, successivamente l’intervento di Adelina non venne reso pubblico insieme agli altri, perché giudicato “violento” e “censorio”. La decisione di escludere Adelina pose la proverbiale pietra sopra la possibilità di aprire un dibattito fra le due diverse fazioni, e da allora l’idea di un confronto costruttivo non si è mai più ripresentata.
Adelina, non ci sono dubbi in proposito, era un’abolizionista.
Se credo che tutte, abolizioniste e regolamentiste, oggi, possiamo sentirci idealmente riunite nel dolore per la sua morte, coloro che a quel tempo non la vollero al loro fianco, rifiutando senza possibilità di appello le istanze di cui si era fatta portavoce, dovrebbero fare un passo indietro per lasciare spazio a chi non è mosso solo dalla pietà nei confronti di una vittima di malagiustizia, ma che con Adelina condivideva un progetto di lotta femminista fondato su un’analisi del fenomeno e una visione del futuro che non prevede la legalizzazione dello sfruttamento della prostituzione.
Sarebbe rispettoso che venisse ricordata con le sue parole e non con una slogan che – lo aveva detto chiaramente – non le piaceva affatto.
La morte di Adelina è un evento straziante, assurdo, e sul quale non si può non riflettere, soprattutto considerando le circostanze che vengono riferite.
Doveva essere una persona eccezionale, e sicuramente se ne è andata una risorsa preziosa: al posto di un foglio di via meritava di sicuro un riconoscimento, e una ricompensa, che rendessero merito al suo coraggio e ai risultati che aveva fatto ottenere.
Sul punto, è dunque quasi meglio tacere.
Taccio anche sul fatto che non sono per la criminalizzazione del cliente, ma per la regolamentazione della prostituzione. Ma non ritengo utile avviare qui una discussione.
Faccio però una domanda provocatoria e irritante, perché comunque il mio ruolo qui è questo.
E la mia domanda è: ma questo è un post per ricordare, e onorare, una persona che ci ha dato molto, e che molto ancora doveva dare, o un modo per attaccare quelle di “Non Una Di Meno”, ed è dunque solo una ripicca, un momento di beghe tra femministe litigiose, intessuto su quella astiosità sotterranea e subdola tipica delle donne quando devono colpire altre donne?
Ho dato il mio peggio, come al solito, e spero che sarai s/contenta
Non è un “attacco”, ma una richiesta.
“astiosità sotterranea e subdola tipica delle donne quando devono colpire altre donne?”
Non potevi risparmiartelo? Ironico che tu abbia appena fatto quello che insinui molto specificamente Riccio possa aver fatto con questo post, con una domanda caricata.
Aggiungo la data al filmato dell’assemblea di Roma 2017: 23 aprile.
Adelina mi dispiace non aver fatto niente per aiutarti