Profeti inascoltati

Mentre l’Italia celebra l’ultimo capolavoro di Hayao Miyazaki riempiendo le sale cinematografiche, mi trovo a riflettere su quanto la reverenza che suscita il ritorno al lavoro del regista giapponese strida con il lento e inesorabile avverarsi delle sue più cupe distopie.

Ieri sera, mentre leggevo dei più di 100.000 spettatori che in un sol giorno sono accorsi a celebrare “Il ragazzo e l’airone”, continuava a tornarmi in mente una delle eroine che preferisco, “Nausicaä della Valle del vento”.

La sinossi: in un futuro in cui il pianeta terra è divorato da miasmi che rendono l’atmosfera tossica per gli esseri umani, invece di allearsi per comprendere e contrastare il fenomeno del “mar marcio” e delle mefitiche foreste popolate da insetti giganti, le nazioni dedicano tutte le loro energie e risorse per muovere guerra l’una contro l’altra, in una spirale di morte e distruzione che minaccia di accelerare esponenzialmente il deterioramento delle zone rimaste abitabili e annientare definitivamente il genere umano.

Sui conflitti in atto aleggia lo spirito terrificante del soldato titano, un’arma in grado di produrre una devastazione senza pari, residuo bellico di quei terrificanti “sette giorni di fuoco” che hanno instradato la civiltà umana verso l’autodistruzione e ciononostante strumento ambito da quelle potenze che si contendono il primato sull’intera popolazione terreste.

In questo panorama devastato si staglia la figura di Nausicaä, principessa di un piccolo e insignificante regno di frontiera dotata di nessuno di quelli che siamo soliti considerare i poteri necessari ad una salvatrice della situazione: non è particolarmente forte se non nell’animo, non ha altre risorse al di fuori di un’incrollabile determinazione, e l’unica sua dote fuori dall’ordinario è un’empatia tale da farle provare compassione non solo per i suoi nemici (più di una volta, infatti, non esita a salvare i suoi aggressori mettendo a rischio la propria vita), ma anche per quella quella natura orrida e selvaggia popolata di funghi secernenti spore velenose e artropodi mastodontici e famelici che, invadendo ogni spazio, sta di fatto espellendo la razza umana.

Nausicaä, dopo un primo momento di rabbia, rinuncia ad ogni sentimento di rivalsa e si oppone alla violenza della guerra disarmata e disarmante, animata dalla ferrea volontà di salvare ogni vita, umana e non umana, nella convinzione che porsi l’obiettivo dell’annientamento dell’ “altro” non potrà che condurre ad una terribile fine per tutti.

Non voglio raccontarvi come va a finire.

Se vi capita di recuperarlo e dargli un’occhiata, potreste aiutarmi a capire come mai tutto l’entusiasmo che oggi circonda lo Studio Ghibli e il suo fondatore si riduca al culto del genio di un individuo, senza che si prendano in seria considerazione i messaggi per nulla criptici che quell’individuo ci invia da decenni.

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Supereroi e principesse

Mentre il clamore mediatico suscitato da uno degli ultimi femminicidi ha sollevato un acceso dibattito pubblico sull’opportunità o meno di tirare in balle il termine “patriarcato” quando il numero delle donne ammazzate dagli uomini convinti di amarle si mantiene costante nel tempo, una affezionata lettrice di questo blog in disarmo mi chiede un parere su un’apparentemente innocua iniziativa natalizia della città di Empoli: un’attrazione dedicata ai bambini dal titolo “la casa delle principesse e dei supereroi”.

Detta così, non si capisce cosa possa aver indignato i cittadini che hanno protestato.

In realtà a destare lo sdegno non è stata l’iniziativa in sé, bensì il modo in cui è stata presentata: la suddetta casa, infatti, inizialmente assegnava i supereroi ai bambini e relegava le bambine nell’alveo delle principesse, con buona pace di Wonder Woman, Captain Marvel e tutte le altre supereroine, per non parlare dei principi e gli altri personaggi delle fiabe di sesso maschile.

Come possiamo leggere su gonews.it, la “frase infelice” è stata cestinata con tanto di scuse, mentre su Facebook è ancora possibile leggere i commenti di tutti coloro che si scagliano contro i fanatici del politicamente corretto che, a dispetto di tanti problemi “veri” che la cronaca ci propone ogni giorno, non trovano niente di meglio da fare che criminalizzare chi si dà da fare per rendere piacevole il tempo libero dei bambini.

E’ di per sé evidente – ma occorre comunque esplicitarlo – che non vi è nessun legame diretto di causa ed effetto tra la genderizzazione dei giocattoli e il femminicidio; detto in parole semplici, nessuno sostiene né mai sosterrà che strappare di mano ad un bambino la bambola di Elsa di Frozen rimproverandogli che i maschi non giocano con le principesse per convincerlo ad acquistare il martello di Thor lo condanna ad un futuro certo da maschio violentatore; tuttavia una società che ancora non trova nulla di perturbante nel ghettizzare i bambini in base al sesso, strutturando dei giochi per lui e dei giochi per lei mirati ad indirizzarli verso specifici ruoli e qualità da sviluppare (l’eroe è coraggioso, forte, vigoroso, la principessa è affabile, amabile e graziosa, il supereroe salva il mondo, la principessa trova il vero amore), è una società ancora fondata sulla segregazione: i maschi da una parte, le femmine da un’altra, ognuno con il suo ruolo predeterminato.

E questo è un problema. Soprattutto perché non vi è dubbio alcuno sul fatto che un ruolo sia progettato per dominare sull’altro.

A tale proposito non mi resta che proporvi una lettura, “Dalla parte delle bambine”, di Elena Gianini Belotti:

La cultura alla quale apparteniamo, come ogni altra cultura, si serve di tutti i mezzi a sua disposizione per ottenere dagli individui dei due sessi il comportamento più adeguato ai valori che le preme conservare e trasmettere. L’obiettivo dell’identificazione di un bambino col sesso cui è stato assegnato si raggiunge molto presto, e non ci sono elementi per dedurre che questo complesso fenomeno abbia radici biologiche. (…) Finché le origini innate di certi comportamenti differenziati secondo il sesso restano un’ipotesi, l’ipotesi opposta che siano invece frutto dei condizionamenti sociali e culturali cui i bambini vengono sottoposti fin dalla nascita rimane altrettanto valida. Mentre però né la biologia né la psicologia sono in grado di dirci che cosa è innato e che cosa è appreso, l’antropologia ci ha dato precise risposte che appoggiano quest’ultima tesi. Ammesso anche che ve ne siano, non è in potere di nessuno modificare le eventuali cause biologiche innate, ma può essere in nostro potere modificare le evidenti cause sociali e culturali delle differenze tra i sessi; prima di tentare di cambiarle, è però necessario conoscerle. Scopriremo la loro genesi in piccoli gesti quotidiani che ci sono tanto abituali da passare inosservati; in reazioni automatiche di cui ci sfuggono le origini e gli scopi e che ripetiamo senza aver coscienza del loro significato perché li abbiamo interiorizzati nel processo educativo; in pregiudizi che non reggono alla ragione né ai tempi mutati ma che pure continuiamo a considerare verità intoccabili; nel costume che ha codici e regole rigidissime.
Spezzare la catena di condizionamenti che si trasmette pressoché immutata da una generazione all’altra non è semplice, ma ci sono momenti storici in cui simili operazioni possono risultare più facili che in altri. Come oggi, quando tutti i valori della società sono in crisi e tra questi il mito della “naturale” superiorità maschile contrapposta alla “naturale” inferiorità femminile.

Ci tengo a riportare un altro passo della premessa di questo testo fondamentale per chi voglia mettersi nella posizione di comprendere le ragioni dei cosiddetti “fanatici” di cui sopra, nel quale si parla dell’intento del libro che non vuole essere “un atto d’accusa”, bensì

una spinta a prendere coscienza dei condizionamenti subiti e a non trasmetterli a loro volta, e contemporaneamente a rendersi conto che possono modificarli. L’operazione da compiere, che ci riguarda tutti ma soprattutto le donne perché ad esse è affidata l’educazione dei bambini, non è quella di tentare di formare le bambine a immagine e somiglianza dei maschi, ma di restituire a ogni individuo che nasce la possibilità di svilupparsi nel modo che gli è più congeniale, indipendentemente dal sesso cui appartiene.

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Principesse alla riscossa

Ieri La Stampa pubblicava un articolo sul libro di Flavia Piccinni “Bellissime. Baby miss, giovani modelli e aspiranti lolite”, denunciando gli effetti negativi degli stereotipi di genere sulle piccolissime (e sui piccolissimi) che popolano mondo degli spot, dei concorsi di bellezza e delle passerelle:

«le bambine sono piccole donne truccate e seduttive, i maschi scugnizzi che si divertono».

Qualche giorno fa pubblicavo sulla mia pagina facebook un altro articolo, Disneyland Paris si scusa con un bambino: anche i maschi possono diventare “principesse per un giorno”, che narrava la disavventura di Noah, un bambino inglese di 3 anni, al quale i genitori volevano regalare l’emozione di vivere una giornata nei panni della sua eroina preferita, la principessa Elsa di Frozen.

Il parco divertimenti aveva fatto sapere ai genitori di Noah che “in questo momento non è possibile prenotare l’esperienza Principessa Per Un Giorno per un bambino maschio”, ma la mamma del bambino ha protestato:

Se una ragazzina vuole essere una supereroina o un Jedi può farlo, ma a quanto pare se un bambino vuole essere una principessa non va bene”.

Alla fine, la Disney ha dato ragione alla famiglia di Noah, dichiarando che

“sia i bambini che le bambine sono i benvenuti nell’esperienza Principessa Per Un Giorno, così come in tutte le altre nostre attività”.

A questa notizia ho ricevuto un’osservazione:

Quando io, che sono nata più di 40 anni fa, penso alla “principessa”, la prima fiaba che mi viene in mente è “La principessa sul pisello”, di Hans Christian Andersen.

Famosa al punto da diventare un modo di dire, questa fiaba, quando ero piccola, mi gettava nello sconforto, poiché non riuscivo a capire in che modo l’essere così delicata da non sopportare neanche una minuscola leguminosa potesse rendere una donna degna di sedere su un trono, che di sicuro è più scomodo dei venti materassi sui quali la protagonista ha sofferto al punto da ridursi in uno stato pietoso.

La “principessa” intesa come un esserino soave e delicato, prezioso e ambito proprio in virtù della sua delicatezza e dell’impegno richiesto per soddisfarne le innumerevoli esigenze, fa ancora parte dell’immaginario collettivo, a dispetto dei tentativi dell’industria dell’intrattenimento di sovvertire gli stereotipi che la riguardano:

Se Biancaneve che grida come Robert Plant è un momento straordinariamente divertente del film “Shrek Terzo”, è proprio perché fino a qualche momento prima di scagliare gli animaletti del bosco contro le guardie e lanciarsi alla conquista del castello con l’agilità di Tom Cruise in Mission Impossible, la principessa gorgheggiava e danzava leggiadra incarnando il perfetto stereotipo delle fiabe: graziosa, amabile e soprattutto innocua al punto che persino le bestioline più timide non temono di uscire allo scoperto per farsi accarezzare da lei.

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Troll

Da diverso tempo ho accantonato la mia attività online.

Gestire – e da sola per giunta – uno spazio in rete non è cosa che si possa portare avanti per troppo tempo senza pagarne lo scotto, e questo blog (con annessa pagina facebook) è in rete – pensate! – dal lontano 2012.

Non sono qui a mendicare comprensione o compassione, soltanto mi sembra doveroso spiegare la mia latitanza agli iscritti che comunque non mancano di fare una visita di tanto in tanto.

Quindi ecco la mia giustificazione: diciamo che sono in aspettativa per motivi personali, ma mi tengo comunque informata e tramite i social mi sforzo di non perdere ogni contatto con il mondo virtuale.

Penso sia normale che, dopo tanto tempo trascorso a confrontarmi con temi non certo dilettevoli, io senta il bisogno di un po’ di ristoro. Tuttavia al Ricciocorno sono affezionata, ha contribuito a tenere vivo l’amore per lo studio e l’approfondimento, mi ha stimolata a mettermi in discussione aiutandomi a scansare il rischio di assestarmi sulle care, vecchie, comode convinzioni per mera pigrizia, mi ha fatto conoscere e persino incontrare persone interessanti, insomma, ci sono ottime ragioni per non troncare ogni legame.

Ecco perché, in questi giorni, sono costretta mio malgrado ad affrontare coi miei lettori un tipico problema della rete: il troll.

C’è un utente di facebook (più d’uno credo, ma uno più degli altri) – un fervente attivista del gruppo dei “padri separati” – che ha deciso di stabilirsi sulla mia pagina.

Niente di nuovo, di “fan” del genere ne ho fronteggiati a bizzeffe negli anni e forse uno dei motivi per cui ho drasticamente ridotto l’attività è proprio il fatto che, a furia di vivere a stretto contatto… virtuale, certo, ma pur sempre stretto, visto che quando questi tizi si insediano nel tuo spazio ha più scambi con loro di quanti ne abbia con tua zia! Dicevo: a furia di vivere a stretto contatto con qualcosa, questo qualcosa rischia di diventare sempre più normale, sopportabile, persino accettabile, in un certo qual modo. Quando ciò che ritieni aberrante ti si propone quotidianamente, l’animo si anestetizza; l’orrore quotidiano diventa consuetudine e giorno dopo giorno ti scopri sempre meno atterrito e un po’ più rassegnato.

Non pensiate che usi la parola “orrore” con leggerezza, perché non credo siano tanti, i comportamenti che si possono tenere in rete, repulsivi e ributtanti come reagire ad un post sulla sofferenza di un altro essere umano con una faccina che ride a crepapelle.

La stampa ci propone i dettagli scabrosi dell’ultimo stupro di gruppo: lui ridacchia.

Un articolo diffonde le ultime statistiche sulla violenza sessuale: lui ridacchia.

Una testata denuncia l’ennesima sentenza che, invece di motivare una condanna, si affanna ad edificare castelli di giustificazioni sulle solide fondamenta della colpevolizzazione della vittima: lui ridacchia.

La risata – l’ho sempre sostenuto – è uno strumento potente, ma come tutti gli strumenti non è buona o cattiva di per sé: dipende da chi se ne serve e come.

E questa è solo una delle cose che fa che infastidisce il lettore medio della mia pagina.

Quando ho iniziato a scrivere qui, avevo appena scoperto l’esistenza di fenomeni come i Men’s Rights, i papà separati o gli incel, e ne ero terrificata e affascinata insieme. Li ho seguiti come un segugio letteralmente per anni, ho spulciato i loro siti, i blog, i loro furum, i vari spazi sui social, persino le loro capillari attività sul territorio nazionale. Ho passato nottate intere sui loro scritti, gli articoli, gli studi, le interviste, cercando il modo più razionale e argomentato per confutare argomenti a fronte dei quali, a volte, è difficile rimanere pacati e razionali, per altro con risultati non sempre eccellenti e produttivi.

In molti mi hanno chiesto: ma perché? (Sottotesto: davvero non hai niente di meglio da fare nel tuo tempo libero?)

Lo confesso, una risposta a questa domanda non ce l’ho. Potrei liquidare la questione affermando che sentivo il bisogno di farlo, ma è più probabile che sia perché sin da subito ho percepito che i deliri delle fronde più estremiste di questi odiatori di donne non sono altro che la schiuma visibile e repellente generata da un mare ben più vasto e insidioso di misoginia nel quale, volenti o nolenti, nuotiamo un po’ tutti, e che ignorarli non li avrebbe fatti sparire, ma li avrebbe solo allontanati alla mia vista. E lontano dalla mia vista avrebbero continuato a proliferare.

Per restare sulla similitudine del mare, io, singolo e ininfluente individuo, posso anche partire per tuffarmi nelle acque cristalline di una caletta lontana dalle melmose spiagge di casa mia, ma il fatto che tutti i mari del pianeta siano sempre più inquinati resta e il mio viaggio si configura come un balsamo temporaneo, che non incide in alcun modo sul disastro ambientale verso il quale stiamo precipitando.

Allo stesso modo, posso cacciare tutti i molesti troll misogini che hanno tanto tempo libero e astio sufficiente da perdere tempo su una paginetta di poco conto come la mia, ma questo non produrrà in loro il minimo barlume di coscienza di ciò che sono (dei tristi troll della rete, appunto) né influenzerà il livello di inquinamento da misoginia della società nel suo complesso.

Se mi tengo la schiuma ben davanti agli occhi, invece, mi è impossibile ignorare quel problema più vasto e subdolo che è il contesto culturale che la produce.

La questione del balsamo, però, resta un argomento validissimo: se una dose troppo massiccia di raccapriccio produce il rischio concreto di assuefazione, è giusto ogni tanto aprire la finestra e far uscire un po’ d’aria viziata.

Nessuno più di me, oggi come oggi, comprende il vostro desiderio di respirare aria pulita.

In conclusione: a furor di popolo, l’utente troll è stato bannato.

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La nostalgia tossica di un passato che non c’è mai stato

Quando una donna viene uccisa da un feroce uomo ordinario che non appartiene ad una di quelle etnie selvagge aduse alla violenza (allerta sarcasmo) , appaiono in TV gli esperti della psiche.

In questi giorni è tornato in auge un grande classico – la madre dello psicopatico – grazie al filosofo Umberto Galimberti, ma siccome della riduzione alla famiglia disfunzionale (che poi, lo sappiamo, è la mamma disfunzionale) di un fenomeno sociale costante nel tempo e diffuso in tutti i luoghi e in tutti i laghi come il femminicidio abbiamo già discusso, ci occuperemo di un altro leit motiv che piace tanto alla gente: la nostalgia canaglia per i bei tempi che furono in cui le donne erano amate sul serio, non come amano i giovani d’oggi tutti social e videogiochi.

La nostalgia, si sa, è confortante: vagheggiare un mitico passato felice aiuta come poche altre cose a difendersi dall’angoscia generata da un presente cupo e un futuro incerto.

Cosa comporta, però, il cercare consolazione in qualcosa che non è mai esistito?

Queste mie riflessioni sono scaturite dalla lettura di un articolo che cita Vittorino Andreoli: “Si ama con la stessa superficialità con cui si acquista un oggetto su Amazon“, nel quale lo psichiatra riscontra nell’omicida Alessandro Impagnatiello – l’uomo che ha trucidato una delle sue fidanzate, Giulia Tramontano, al settimo mese di gravidanza, dopo che la stessa aveva scoperto i suoi tradimenti – “qualcosa di comune, di diffuso nel comportamento giovanile”.

Secondo Andreoli (riassumo e vi rimando al testo integrale) i giovani d’oggi (un’odiosa specie che compare ogni volta che una generazione supera più o meno i 35 anni) avrebbero perso “completamente la percezione dell’amore”. Cito testualmente:

non c’è più, è scomparsa la cosa più straordinaria, la relazione d’amore in cui uno vuole fare tutto per l’altro, che prova piacere nel generare piacere nell’altro” mentre adesso, semmai, resta “un’esperienza che non ha la dimensione del tempo ma quella del consumo. È un rito che si brucia in modo estremamente rapido, basta che si dica ‘mi sono fatto quella’.

Ma quando è successo? Quand’è che i giovani d’oggi avrebbero perso “la relazione d’amore” e iniziato a fare fuori le fidanzate come fossero “un acquisto su Amazon sbagliato. O una bambola di gomma che ha un meccanismo che non funziona più e la vuole sostituire con un’altra”? Quando esattamente il genere umano ha iniziato a regredire “allo stato istintuale, a quelle che sono le pulsioni come nelle specie animali”?

L’articolo non è molto chiaro in proposito, anche perché l’ultimo paragrafo è in aperta contraddizione con la teoria della regressione allo stato animale (poveri animali!), visto che si parla di una “donna che si è evoluta in questi 20-30 anni, ha fatto passi straordinari dal punto di vista affettivo, del ruolo sociale e del pensiero”, e un uomo che invece “non è andato avanti”…

Perché avrebbe dovuto andare avanti, l’uomo, se in passato, prima di Amazon e delle bambole di gomma, era in possesso della cosa più straordinaria, la percezione dell’amore?

Io non sono un’esperta della psiche, ma mi ricordo di uno, piuttosto famoso, del quale vi fornisco un’immagine:

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è enrico-viii-henry-viii.jpg

che, ben prima dell’avvento delle odierne, mefitiche tecnologie, non aveva problemi a disfarsi in modo cruento e crudele di una donna che non serviva più ai suoi scopi. Scommetto che anche lui non abbia provato il benché minimo senso di colpa. Nessuno può negare che la sua situazione, all’epoca, fosse molto stressante.

Noi non siamo recentemente saliti sul Titanic, ma viviamo da un bel po’ in una società patriarcale.

E’ ora di affondarla.

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Mamma si addormenta

Da quello che sono riuscita a ricostruire, la notizia è uscita a mezzo stampa il 22 gennaio, e i giornali concordavano tutti su un punto: una puerpera si è addormentata e ha soffocato il suo bambino di appena 3 giorni.

fonte: https://www.dire.it/22-01-2023/863359-neonato-morto-soffocato-mentre-la-madre-lo-allatta-lostetrica-non-condividere-il-letto-nei-primi-6-mesi/

Sebbene si tratti solo di un’ipotesi (molti giornali infatti titolano prudentemente “Bambino morto al Pertini, forse schiacciato dalla mamma mentre lo allattava“), il web – incapace di quel minimo sindacale di empatia che a fronte di una tragedia tanto dolorosa imporrebbe un minimo di pietosa prudenza – si scatena in una serie di titoli ad effetto che sottintendono inequivocabilmente un legame di causa ed effetto tra l’addormentarsi della povera donna (notate il grassetto qui sopra) e la morte del neonato.

Negarlo è inutile: se così non fosse, se tutti questi articoli non avessero rigirato crudelmente il coltello nella piaga, il padre non si sarebbe sentito in dovere di difendere la mamma rea di essersi addormentata quando non avrebbe dovuto. Se così non fosse, le mamma d’Italia non si sarebbero sollevate tutte insieme per far arrivare a questi genitori il loro affetto e il loro sostegno.

fonte: https://www.agi.it/cronaca/news/2023-01-22/mamma-si-addormenta-mentre-allatta-morto-neonato-a-roma-19752424/

Se si leggono più attentamente gli articoli, si scoprono due dettagli interessanti:

  1. la Procura ha aperto sì un’indagine, ma non contro la mamma, che in questa storia è parte lesa, bensì contro l’ospedale, forse colpevole di non aver offerto alla puerpera la dovuta assistenza;
  2. gli esperti che commentano a caldo la vicenda suggeriscono che la più probabile delle cause di morte è il Sudden Unexpected Postnatal Collapse (SUPC, ovvero collasso neonatale improvviso e inaspettato), un evento molto raro che si manifesta in un caso ogni 10mila nati sani nella prima settimana di vita e che sarebbe favorito dalla pratica del co-sleeping, ovvero dal lasciar dormire il neonato nel lettone.
fonte: https://www.laprovinciadicomo.it/stories/como-citta/il-neonato-soffocato-per-errore-dalla-mamma-il-medico-e-importante-sorvegliar_1450023_11/

Alzi la mano chi ha ricevuto questa informazione.

Io ho frequentato non uno ma ben due corsi preparto – ormai venti anni fa, ma comunque in regime di rooming in – e di questa SUPC o dell’importanza di rimettere subito il neonato nel lettino non ho mai sentito parlare. Anche fossi una tipa distratta – e lo sono – mossa da quel profondo e angosciante senso di inadeguatezza che accompagna ogni primipara, di corsi ne ho seguiti due, quindi ci metto la proverbiale mano sul fuoco: nessuno me lo ha mai detto. Tanto che ricordo perfettamente di averlo chiesto alla mia pediatra, una volta tornata a casa: “Ma tenere il bambino nel letto non è pericoloso? Non c’è il rischio che cada o che lo schiacci?” La risposta fu piuttosto lapidaria: “Perché, lei assume sostanze psicotrope?”

E poi: scheda di osservazioni? Controlli ogni 15 minuti? Assistenza giorno e notte? Ma di che parla questo signore?

Il panorama che emerge dalla valanga di reazioni che sono seguite al j’accuse della stampa contro la mamma dormigliona è molto, molto diverso.

Dalla mia pagina facebook, che è un granello di sabbia nel mare di solidarietà che ha inondato la rete:

Era il 2009 ,parto indotto, sono entrata in ospedale il 18 febbraio alle 7:30, ho partorito il giorno dopo alle 12:30.. ero esausta ,tanto da addormentarmi durante il parto.. l ostetrica scocciata dal fatto che non riuscissi a stare con gli occhi aperti..non so dove ho preso la forza per spingere.. sono stata lasciata col bambino da subito, fortunatamente ho avuto subito la montata lattea in quanto avevo finito da pochi mesi di allattare la sorella di 2 anni e mezzo, era tranquillo e ha dormito tutto il pomeriggio dandomi il tempo di riposare.. ho avuto anche io paura di addormentarmi mentre lo allattavo tanto che l ho fatto mentre c era il padre e poi l ho messo nella culla.. sono stata anche io fortunata ,sarei potuta essere anche io la mamma di Roma.. vorrei poter abbracciare quella mamma e dirle che non ha colpa.

Nel 2005, non al Pertini e non a Roma, fui lasciata sola col mio bimbo già la notte successiva al cesareo, effettuato nel primo pomeriggio. La prima notte Enrico dormì sereno accanto al mio letto, la seconda notte pianse invece continuamente e mi ritrovai sola solissima a camminare su e giù per il corridoio della maternità con lui in braccio. Ero arrivata al cesareo con occhiaie mai avute in vita mia né prima né dopo, dopo tre giorni di travaglio in cui non avevo mai dormito. Quindi ero stata operata e, ripeto, subito lasciata sola di notte con il bambino. Al terzo giorno mi dimisero, camminavo come Robocop e avevo ragadi sanguinanti ai capezzoli, ma non vedevo l’ora di andare via da lì e tornare a casa da mio marito. No, non sono una “comodona”, la prima cosa che feci appena tornata a casa fu darmi da fare. Con la sicurezza di avere altre persone accanto a me e al bambino. Sono favorevole al rooming in ma penso che sia qualcosa di molto diverso dalla situazione paradossale di lasciare sola una puerpera in un affollato reparto maternità. Le nostre madri erano già vittime di violenza ostetrica ma almeno non erano lasciate sole in questo modo dopo il parto. Ovvero mentre le tecniche chirurgiche sono migliorate, l’assistenza è peggiorata.

Io ho partorito febbraio 2021 con le restrizioni in pieno vigore per la Pandemia. Sono stata in ospedale 9 giorni. 4 giorni in osservazione e 5 giorni con mio figlio. Ero sfinita in un modo allucinante. Mio marito è stato chiamato a travaglio attivo. È rimasto fino al parto e le due ore successive. Fine. Per 5 giorni sono stata sola con il bambino. Nulla da dire sul personale medico. Però venivano, controllavano e andavano via. Già permettere a mio marito di stare un’ora al giorno sarebbe stato darmi la possibilità di fare una doccia, andare al gabinetto ( con i punti sapete che strazio). Sono stata sporca, con i capelli lerci praticamente dal pomeriggio del 22 febbraio fino al 27 sera. Ero sola in camera.

Potevo essere io” è immediatamente diventato un trending topic: i racconti di solitudine, sconforto, dolore fisico e senso di abbandono non si contano e tutti dipingono l’ospedale come un luogo dal quale le mamme non vedono l’ora di fuggire, per trovare conforto nel caldo abbraccio delle famiglie. Il personale preposto all’assistenza è per lo più assente in questi racconti e quando è descritto troppo spesso è dipinto così:

Mi sono sentita sola dalla prima notte che ho partorito, ho chiesto aiuto per cambiarlo e mi hanno fatto sentire un’incapace, ho chiesto aiuto per l’attacco e mi hanno fatto sentire un’incapace.

Ci sono anche donne che ringraziano un’ostetrica o un’infermiera affettuosa – sarebbe sciocco ignorarle – ma ce ne sono tante, troppe, che, ricordando con orrore quei primi giorni dopo il parto, hanno messo nero su bianco la loro verità: una mamma sola e stanca all’inverosimile, la cui richiesta di aiuto e conforto rimane inascoltata, lo sono stata anche io.

E, come è avvenuto per il #metoo, è giusto che anche questo grido collettivo non rimanga inascoltato.

Come spesso avviene quando le donne si sollevano per denunciare un ingiusto trattamento loro riservato in quanto donne, qualcuno si ingegna a costruire un argomento fantoccio per smorzare i toni e rimettere le indignate al loro posto.

In questi giorni leggiamo tanti accorati appelli in difesa del rooming in, delle buone pratiche consigliate dall’Unicef e dall’OMS, appelli che raccomandano alle mamme troppo emotive di non buttare il bambino con l’acqua sporca, perché a tornare indietro ci rimetterebbero soprattutto degli infanti innocenti, condannati a tornare ammassati nei nidi, soli e abbandonati se si insiste a protestare.

Lo so che è facile cascarci, ma non fatevi ingannare.

Nessuna ha chiesto che puerpere e neonati trascorrano separati i primi giorni dopo il parto, non siamo così stupide come vi piace dipingerci: stiamo solo dicendo che le madri sono esseri umani e in quanto tali hanno bisogno di dormire, di tanto in tanto, e che imporre la privazione del sonno è una forma di tortura, anche quando a subirla è una femmina che ha appena partorito.

Stiamo solo ribadendo che le donne sono esseri umani.

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Ged – Gender equality and diversity label: che genere di premio?

Al minuto 2:28 possiamo ascoltare una delle vincitrici dell’edizione 2020 del Premio Innovatori Responsabili, il (cito testualmente)

Premio regionale per la responsabilità sociale di impresa e l’innovazione sociale, istituito dall’art. 17 della Legge regionale n. 14 del 18 luglio 2014, Promozione degli investimenti in Emilia-Romagna, [che] valorizza le esperienze più significative realizzate dalle imprese emiliano-romagnole e da altri soggetti che attraverso iniziative di innovazione responsabile contribuiscono ad attuare gli obiettivi e i target indicati dall’ONU con l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.

La psicologa e psicoterapeta Maria Cristina Meloni è stata premiata nell’ambito delle segnalazioni GED – Gender equality and diversity label, che – come da regolamento (pagg.4 e 5) – è un premio assegnato

in attuazione dell’art. 30 della L.R. 6/2014, alla migliore buona pratica relativa ad azioni positive per le pari opportunità.

Per questo motivo, ovvero poiché la succitata legge si ispira ai principi espressi dalla Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW) e della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul),

ai fini dell’attribuzione di tale premio, come stabilito al punto 1.4 del Bando, è previsto il coinvolgimento della Commissione assembleare per la parità e i diritti delle persone.

Non è curioso che un simile riconoscimento, la cui creazione trova il fondamento in due fra le più importanti Convenzioni internazionali attestanti l’esistenza di un fenomeno sociale noto come “violenza contro le donne”, venga conferito ad una professionista fermamente convinta che “la violenza non ha genere“?

Anche senza voler entrare nel merito della sussistenza delle argomentazioni che la signora Meloni adduce a supporto della sua tesi, assegnarle il premio GED equivale ad assegnare ai nazisti dell’Illinois un posto nel Giardino dei Giusti: una contraddizione della quale è difficile darsi una spiegazione.

Come sono venuta a conoscenza di questo inspiegabile accadimento?

Grazie a Facebok e ad una lettera aperta che un nutrito gruppo di cittadine e cittadini indignati ha inviato ad una serie di personaggi politici (fra i quali spicca anche il Presidente Commissione per la parità e per i diritti delle persone della Regione Emilia Romagna) in occasione di un Convegno, valido a fornire 2 crediti formativi agli avvocati partecipanti, che si svolge a Piacenza oggi 21 gennaio 2023; il convegno, introdotto proprio dalla psicologa e psicoterapeuta Maria Cristina Meloni, affronta fra gli altri tutti i temi cari ai papà separati:

le false accuse

le false memorie

i bambini suggestionati.

(Per chi fosse digiuno sul particolare significato dell’espressione “papà separati”, vi rimando ad un testo vecchiotto ma sempre attuale, che spiega come la stessa non si riferisce ai genitori separati di sesso maschile).

Come molti studiosi del fenomeno “papà separati” hanno spiegato negli ultimi anni (perché, checché ne dica la signora Meloni, è tutt’altro che un fenomeno poco indagato, sebbene non lo sia nei termini che usa lei nelle sue interviste) la lettura della violenza contro le donne fornita dal femminismo è un punto chiave dell’attivismo dei gruppi di attivisti per i diritti dei papà; promuovere una lettura della violenza “interpersonale” (e delle politiche in merito) priva di qualsivoglia connotazione di genere, infatti, è funzionale alla loro battaglia, mirata a difendere il disequilibrio di potere a favore dell’uomo all’interno della struttura familiare e il dominio maschile nella società.

Per farlo gli attivisti e le loro fiancheggiatrici diffondono analisi prive di fondamento nella ricerca empirica e dati inventati, come ad esempio quello fornito dalla signora Meloni al sito Il Piacenza linkato qualche paragrafo addietro:

Ogni anno sono circa 200 i padri che si suicidano perché le ex mogli gli impediscono di vedere i figli o li hanno accusati di un grave e falso reato.

Da dove salta fuori questo numero? Chi ha condotto uno studio statistico sui suicidi dei padri e dove è stato pubblicato?

Ve lo dico io: nessuno lo ha condotto e non ci sono pubblicazioni. E’ un dato falso e diffuso allo scopo di supportare l’idea balzana che parlare di violenza contro le donne equivalga rendersi colpevoli di discriminazione di genere.

Sono pronta a ricredermi ed a chiedere scusa se qualcuno mi fornisce una fonte di questo numero che non sia La Fionda o il presidente dell’associazione “Nessuno tocchi papà” Walter Buscema, che vanta la medesima autorevolezza come esperto di studi statistici che posso vantare io.

Ma siccome sono abbastanza certa che nessuno si farà avanti con qualcosa di più concreto, sono qui a chiedervi se la Commissione per la parità e per i diritti delle persone della Regione Emilia Romagna, nel rispetto di tutte le vittime, non debba dire e fare qualcosa per rimediare all’assegnazione sciagurata del premio GED alla signora Meloni, che, magari sarà stata brava ad imbrogliarli all’epoca, ma oggi si dimostra soprattutto impegnata nel creare un clima saturo di ostilità e sospetto attorno a chiunque decida di denunciare la violenza maschile contro le donne.

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Modifica dell’articolo 1 del Codice civile in materia di riconoscimento della capacità giuridica dello spermatozoo

Il 20 novembre 1989, è stata approvata la Convenzione universale sui diritti del fanciullo, di cui alla legge 27 maggio 1991, n. 176. Essa ha trasformato in atto giuridicamente vincolante per i 193 Stati che l’hanno ratificata la precedente dichiarazione del 20 novembre 1959. Così come in quest’ultima era già stato proclamato, la Convenzione del 1989 ripete, nel preambolo, che “il fanciullo, a causa della sua mancanza di maturità fisica ed intellettuale, necessita di una protezione e di cure particolari, ivi compresa una protezione legale appropriata, sia prima che dopo la nascita.” Quel “prima” è stato per anni il fondamento giuridico di proposte volte a modificare il nostro ordinamento al fine di garantire dignità di essere vivente pienamente umano per mezzo della concessione della capacità giuridica (l’attitudine alla titolarità di diritti e di doveri giuridici, ovvero la sua capacità di essere soggetto di diritti e di obblighi) a quel risultato di complessi e noti processi biochimici e cellulari che hanno luogo fra l’ovulo femminile e lo spermatozoo maschile nelle prime 24 ore dopo l’amplesso all’interno del corpo della donna, comunemente indicato dall’espressione “il concepito”.

Tali proposte, a nostro avviso, si fermano troppo presto: se è sufficiente la mera possibilità che tale commistione di patrimoni genetici si evolva nell’essere riconoscibile come umano, autonomo e indipendente che nove mesi dopo vedrà la luce, distaccandosi dal corpo della madre, perché non attribuire anche alla porzione di patrimonio contenuta nella singola cellula gametica la dignità di persona umana?

Su che basi affermiamo che la cellula fecondata è il primo stadio dell’essere vivente, e non riconosciamo invece che il primo stadio della riproduzione umana è proprio la produzione di cellule aploidi la cui unica funzione è quella di fondersi al fine di dare vita ad un essere vivente?

Viviamo un momento storico particolarmente preoccupante: la capacità riproduttiva maschile è in costante diminuzione. Uno studio della Hebrew University e pubblicato sulla rivista Human Reproduction Update che ha passato in rassegna 185 studi riguardanti quasi 43 mila uomini dimostrerebbe al di là di ogni ragionevole dubbio che la conta spermatica in Occidente in tempi preoccupantemente brevi si è dimezzata: ci i dati che negli ultimi 40 anni la concentrazione di spermatozoi nell’eiaculato maschile è calata del 52%, e il loro numero totale del 60%.

Insomma, negli ultimi decenni, nell’indifferenza generale, si è consumata una moria silenziosa e senza spiegazioni degli spermatozoi: da 99 milioni a 47,1 milioni per millilitro. Un’ecatombe, in termini di fertilità.

Scienziati e filosofi si sono interrogati a lungo sulla distinzione dei vari stadi dello sviluppo prenatale, dalla fecondazione alla nascita. Difficilmente, invece, qualcuno si è spinto a riconoscere l’origine dell’essere umano nelle sue componenti separate quando esse albergano degli individui di sesso maschile e femminile. Eppure, le medesime domande che ci poniamo sullo status del feto, potrebbero tranquillamente essere poste sulle cellule che a quel feto danno origine, giungendo alle medesime conclusioni.

Potremmo ad esempio chiederci se, nel momento in cui lo spermatozoo è generato all’interno delle gonadi maschili, esso è ancora parte integrante del corpo dell’uomo oppure è da considerarsi parte integrante della persona che quello spermatozoo ha il potere di generare, soprattutto alla luce del fatto che lo spermatozoo è generato all’interno del corpo umano per essere espulso da quel corpo. Se al termine del periodo “gestazionale” dello spermatozoo (con il termine virgolettato ci riferiamo al periodo che la cellula trascorre all’interno dell’apparato riproduttore maschile per giungere a piena maturazione), esso non viene eiaculato per iniziare il suo viaggio verso la sua metà, con il passare del tempo degenera – potremmo dire che invecchia – e muore, senza aver assolto all’interno del corpo maschile alcuna funzione utile al suo sviluppo.

Coloro che ritengono che lo zigote sin dai primi momenti sia da considerarsi persona, ritengono che ciò che ci rende unici, individui, appunto, è il nostro patrimonio genetico. Se supponiamo che questa affermazione sia vera, dobbiamo ammettere che altrettanto unica e irripetibile è quella parte del patrimonio genetico che andrà a costituire il tutto, anche prima di unirsi alla sua metà: perché non è forse vero che se di un essere umano per qualunque ragione ne restasse soltanto la metà – a causa di un trauma o di una patologia – essa rimarrebbe sempre e comunque una persona?

La tutela dello spermatozoo, cellula a rischio in un’ambiente ostile che ha già sterminato una infinità di specie viventi tra animali e vegetali ponendo fine alla loro esistenza sulla terra, merita l’attenzione del nostro ordinamento, e rientra in quella tutela del bambino in quanto soggetto bisognoso di cure particolari cui la Convenzione universale sui diritti del fanciullo ci vincola.

La spermapocalypse è alle porte: spetta a noi intervenire tempestivamente per tutelare la vita umana su questo pianeta.

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Chloe

fonte : Rights of Women

Cosa si intende con “controllo coercitivo”?

Parliamo di “controllo coercitivo” quando una persona con la quale hai un legame personale si comporta ripetutamente in modo da farti sentire controllata, dipendente, isolata o spaventata.

A seguire alcuni esempi di controllo coercitivo:

  • ti isola da parenti e amici
  • controlla quanto denaro hai a disposizione e come lo spendi
  • monitora le tue attività e i tuoi spostamenti
  • ti denigra costantemente con epiteti infamanti o accusandoti di non valere niente
  • minaccia di farti del male o di ucciderti o minaccia i tuoi bambini
  • minaccia di rendere pubbliche informazioni su di te o di denunciarti alla polizia o alle autorità
  • danneggia le tue proprietà o quelle familiari
  • ti costringe a prendere parte ad azioni criminali o ad abusi sui bambini.

Alcuni dei comportamenti qui elencati possono costituire altre fattispecie di reato oltre al controllo coercitivo, motivo per cui il maltrattante può essere imputato di più reati per il medesimo comportamento. Ad esempio, se rompere il tuo telefono rientra fra le azioni che compie per controllarti, piò essere accusato di controllo coercitivo e danneggiamento.

Il maltrattante verrà ritenuto colpevole di controllo coercitivo se

  1. ha un legame personale con te
  2. il suo comportamento ha seri effetti su di te e
  3. se è consapevole o avrebbe dovuto sapere che il suo comportamento avrebbe avuto un grave effetto su di te.

Ultimamente mi sono dedicata al passatempo prediletto dai più in questo momento storico e ho scovato una serie TV che mi ha felicemente impressionato: Chloe.

ATTENZIONE: ABBONDERO’ CON GLI SPOILER.

Questa miniserie (credo si debba definire miniserie qualsiasi prodotto con solo una stagione, ma correggetemi se sbaglio) a mio avviso affronta magistralmente uno degli aspetti più controversi della violenza domestica, ovvero la sua invisibilità.

La violenza domestica -, in questo particolare caso quella declinazione della violenza domestica che prende il nome di “controllo coercitivo” (punito espressamente dalla legge in Inghilterra e Galles dal 2015) – è così invisibile che nessuna delle recensioni della serie la cita espressamente, nonostante il mistero della morte della giovane socialite Chloe Fairbourne, che la protagonista è determinata a svelare con ogni mezzo, non si risolva nel modo più ovvio: è stato il marito.

A voler essere più precisi e allo scopo di togliervi ogni gusto di arrivare allo svelamento del finale, non sappiamo per certo se la povera Chloe, trovandosi preclusa ogni via di fuga da una relazione soffocante oltre il limite della tollerabilità, abbia deciso di gettarsi dalla scogliera o se a spingerla sia stato il suo aguzzino, esasperato dalla sua ostinazione a lasciarlo, perché, nonostante fosse fisicamente presente al momento della morte, la madre della vittima a proposito delle dinamiche dichiara: “Non so che cosa ho visto”, regalandoci una straordinaria epitome del discorso sull’invisibilità della violenza di cui sopra.

Interessante il fatto che per alcuni spettatori l’unica violenza visibile e nominabile sia quella della protagonista:

Incontriamo la protagonista di questa serie, Becky Green, nel suo squallido appartamento di periferia, che divide con la madre affetta da demenza, mentre si prepara ad affrontare un nuovo lavoro interinale da segretaria. Ogni inquadratura trasuda solitudine e frustrazione. La osserviamo mentre scrolla i post sul suo smartphone e notiamo che è interessata ad un’unica utente, della quale segue ogni spostamento, ogni messaggio, ogni contatto, ma con la quale non interagisce mai direttamente. Becky Green è chiaramente ossessionata dalla vita di Chloe Fairbourne, che è bella, sorridente, elegante e circondata da amici altolocati con i quali conduce una vita mondana e festaiola, ma questo la rende una stalker?

L’utilizzo improprio di una definizione che descrive un comportamento criminale ci dà la misura di quanto radicalmente frainteso sia il fenomeno e di quanto il pregiudizio di genere vizi la nostra capacità di giudizio.

Il reato di stalking nel nostro ordinamento è definito “atti persecutori”: lo stalker non osserva, lo stalker agisce, mette in atto una serie di comportamenti, ripetuti nel tempo, tali da provocare nella vittima un perdurante stato di ansia e paura, un fondato timore per la propria incolumità e quella dei propri cari, e la costringe a cambiare radicalmente le sue abitudini.

Prima della morte di Chloe non c’è nulla nel comportamento di Becky Green che configuri il reato di stalking; finché non scopriamo che poco prima di morire Chloe ha tentato di contattare proprio Becky, per quello che ne sappiamo le due potrebbero non essersi mai incontrate e l’ossessione di Becky potrebbe essere nata dal fatto che Chloe, in quanto graziosa moglie di un promettente politico locale, è più visibile sui social di altre ragazze del bel mondo.

Certo, Becky Green non è un’incolore ragazzetta dai bassi natali che si limita a sognare un’esistenza fatta di serate di beneficenza, feste private, sfilate di moda, raccolte fondi, festival e altri eventi esclusivi mentre ingoia cereali e sospira seduta in cucina; come l’antieroina di Thackeray di cui porta il nome, non esita a manipolare frammenti di informazioni e conversazioni ascoltate, date, nomi su inviti, persino a rubare per intrufolarsi in quella fiera delle vanità che la sua sfortunata condizione le precluderebbe, e questo la rende una protagonista più intensa, sfaccettata e interessante di quanto lo siano mai state le giovinette tutta virtù alla Samuel Richardson, per restare nell’ambito delle similitudini letterarie.

Per quanto eticamente discutibili siano le scelte che compie prima e dopo la morte di Chloe, il viaggio sotto mentite spoglie che Becky intraprende per riappropriarsi dell’amica perduta a me ha fatto pensare ad vecchio film degli anni ’80 – di cui c’è anche un discutibile remake americano – Il mistero della donna scomparsa; nel film l’unico modo in cui il protagonista può riappacificarsi con l’improvvisa e inspiegabile scomparsa della sua amata in una stazione di servizio è accettando di vivere sulla sua pelle quello che le è accaduto dal momento in cui ha incontrato il suo aguzzino.

C’è sicuramente una critica feroce al classismo della società britannica nella serie, alla vacuità e all’ipocrisia di una classe dirigente fatua ed egoista, e si accenna anche a quanto i social network alimentino l’insoddisfazione di chi si misura ossessivamente con i siparietti degli influencer del momento, ma l’aspetto che io ho apprezzato di più è che, insieme a Becky, grazie alla sua folle determinazione nel rispondere, seppure troppo tardi, all’ultimo grido d’aiuto della sua vecchia amica, scopriamo quanto sia subdola e strisciante la violenza domestica, come riesca ad intrufolarsi nella vita di una donna senza che le persone più care si rendano conto di ciò che realmente sta accadendo, senza che la stessa vittima se ne renda conto se non troppo tardi, quando ogni sua richiesta di comprensione e supporto assume la forma sinistra delle farneticazioni di un’ingrata bisognosa di sedativi e tanta terapia.

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Il processo Depp-Heard e la violenza domestica

Quanto sta avvenendo in Virginia fra l’attore Johnny Depp e l’ex moglie Amber Heard è impossibile da ignorare, se sei munito di smartphone ed iscritto ad uno o più social network. Il web è letteralmente infestato da materiale inerente alla causa giudiziaria, la maggior parte del quale è materiale veramente, veramente inquietante.

Un esempio per chiarire cosa intendo con inquietante: nel corso di una testimonianza, Amber Heard si è interrotta per un momento brevissimo a causa uno spasmo involontario del volto e quei pochi secondi di video hanno ispirato centinaia di “creativi” che si sono spesi in brevi “parodie” di quello spasmo.

Molte delle persone che si dilettano in questi imbarazzanti siparietti sono persone adulte, dalle quali ci si aspetterebbe un comportamento più maturo e rispettoso della delicatezza del tema, soprattutto alla luce dei dati sulla violenza maschile contro le donne, che nel mondo colpisce una donna su 4; in Italia ogni giorno sono 89 le donne vittime di violenza di genere e nel 62% di casi si tratta di maltrattamenti in famiglia.

C’è molto poco di cui ridere, sia che si ritenga l’attore colpevole delle aggressioni che gli vengono contestate (e che secondo il verdetto che assolse il tabloid The Sun dall’accusa di diffamazione “sono sono state provate secondo gli standard civili” nel corso del processo svoltosi in Inghilterra poco tempo fa), sia che si abbia maturato la convinzione che Amber Heard sia l’incarnazione della psicopatica Amy di Gone Girl e abbia trascorso gli anni del matrimonio con l’attore elaborando un “astuto” piano per costruire false accuse contro un uomo colpevole soltanto di essere troppo buono e troppo sbronzo per accorgersene.

Purtroppo, se c’è una cosa che questo processo ha messo in luce è che, a dispetto della risonanza che negli USA e nel mondo ha avuto il movimento #metoo – spesso e volentieri citato a sproposito, in questi giorni – siamo ancora molto, molto lontani da una diffusa consapevolezza dell’entità e della natura del fenomeno della violenza sulle donne.

Solo una profonda e radicata ignoranza può spiegare il fatto che il pubblico accetti di buon grado che, messo di fronte al video come quello in cui dà in escandescenze in cucina, Johnny Depp si giustifichi chiedendo:

“Non cercavo di intimidire Miss Heard. Se lei si fosse spaventata perché filmava? Se fosse stata terrorizzata a morte, perché non è scappata?

Se dopo anni di campagne sulla violenza domestica siamo ancora bloccati a “perché non se ne è andata“, significa che tutto ciò che viene detto e ripetuto ad nauseam sulle dinamiche che si instaurano fra vittima e perpetratore ci entra da un orecchio per uscire immediatamente dall’altro senza lasciare all’interno delle teste la più piccola traccia di sé.

A rendere particolarmente irritante la domanda, inoltre, è che a porla senza alcun timore di suscitare reazioni stizzite è un uomo che si proclama lui stesso vittima di violenza domestica, un uomo che racconta di essere rimasto accanto ad una donna che lo umiliava, lo vessava, lo picchiava, nonostante quella donna lo umiliasse, lo vessasse e lo picchiasse.

Tu quoque, Johnny Depp?

Ma lui, diranno i fan, lui aveva ottime ragioni per restare.

La triste realtà della violenza domestica, il motivo per cui la violenza domestica ha di fatto un genere e un sesso ben precisi è che, quando si tratta di darsi ragione di un comportamento di lui e di un comportamento analogo di lei, gli argomenti di lui sono plausibili mentre lei, ovviamente, sta mentendo.

Perché lui è un uomo e lei è una donna.

Ecco perché quando spunta qualcuno che fa notare la somiglianza fra i tailleur di lei e il doppiopetto di lui (come se i vestiti a giacca potessero avere fogge diversissime da quelle che ha ogni vestito a giacca dal giorno in cui abbiamo deciso che la giacca ci conferisce un’aura di serietà) è per forza lei che sta copiando lui – non lui che sta copiando lei – e subito compare qualche articolo che cita la psicologa de noantri a spiegarci che la giacca scura di lei è un evidente sintomo del suo stato mentale da psicopatica Amy.

Molti di quelli che si appassionano a queste balzane teorie fondate solo ed esclusivamente su contenuti farlocchi resi virali dal tam tam social – pensate ad esempio alla frase incriminata della dichiarazione d’apertura di Amber Heard, che sarebbe rivelatrice del suo essere una bugiarda cronica e che non è mai stata pronunciata – dimenticano che questo non è un processo per violenza domestica, bensì un processo per diffamazione.

Il motivo per cui Amber Heard è stata nuovamente trascinata in tribunale è un articoletto pubblicato nel 2018: I spoke up against sexual violence — and faced our culture’s wrath. That has to change.

Andiamo a vedere cosa scriveva la nostra psicopatica Amber:

Ho subito abusi in tenera età. Ci sono verità che ho sempre saputo, senza che me le dicessero mai. Sapevo che gli uomini detengono il potere – fisicamente, socialmente e finanziariamente – e che molte istituzioni supportano questo stato delle cose. Lo sapevo molto prima di avere le parole per dirlo, e scommetto che l’hai imparato anche tu quando eri molto giovane giovane.

Come molte donne, sono stata molestata e aggredita sessualmente quando avevo l’età per il college. Ma non ho mai denunciato: non ho mai creduto che sporgere denuncia mi avrebbe reso giustizia. E non mi vedevo come una vittima.

Poi, due anni fa, sono diventata una figura pubblica che rappresentava gli abusi domestici e ho sentito tutta la forza dell’ira della nostra cultura per le donne che denunciano.

Amici e consulenti mi dicevano che non avrei mai più lavorato come attrice, che sarei stata inserita nella lista nera. Avrei dovuto prendere parte ad un film ma il mio ruolo è stato riassegnato. Avevo appena firmato per una campagna di due anni come volto di un marchio di moda ma l’azienda mi ha abbandonato. Si è discusso sull’opportunità che mantenessi il mio ruolo di Mera nei film “Justice League” e “Aquaman”.

Ho avuto il raro vantaggio di vedere con i miei stessi occhi come le istituzioni proteggono gli uomini accusati di abusi.

Immagina un uomo potente come fosse una nave, come il Titanic. Quella nave è una grande impresa. Quando colpisce un iceberg, ci sono molte persone a bordo che cercano disperatamente di riparare i buchi, non perché ripongono la loro fiducia nella nave o si tengano ad essa, ma perché il loro destino dipende dall’impresa.

Negli ultimi anni, il movimento #MeToo ci ha insegnato come funziona un potere come questo, non solo a Hollywood ma in tutti i tipi di istituzioni: luoghi di lavoro, luoghi di culto o semplicemente in comunità particolari. Le donne di ogni ceto sociale si confrontano con questi uomini che sono sostenuti dalla loro autorevolezza, dal potere economico e culturale. E queste istituzioni stanno cominciando a cambiare.

Siamo in un momento di grandi cambiamenti. Il presidente del nostro Paese è stato accusato da più di una dozzina di donne di cattiva condotta sessuale, comprese aggressioni e molestie. L’indignazione per le sue dichiarazioni e il suo comportamento ha stimolato un’opposizione guidata dalle donne. Il #MeToo ha avviato un dibattito su quanto profondamente la violenza sessuale permei ogni aspetto della vita delle donne E il mese scorso, sono state elette al Congresso più donne che mai nella nostra storia, con il mandato di prendere sul serio i problemi di noi tutte. La rabbia e la determinazione a porre fine alla violenza sessuale si stanno trasformando in una forza politica.

Ora abbiamo la possibilità di rafforzare e costruire istituzioni che proteggano le donne. Per cominciare, il Congresso può rifinanziare e rafforzare la legge sulla violenza di genere. Approvato per la prima volta nel 1994, l’atto è uno dei più efficaci emanati per combattere la violenza domestica e le aggressioni sessuali. Crea sistemi di supporto per le persone che denunciano abusi e fornisce finanziamenti per i centri antiviolenza, programmi di assistenza legale e altri servizi importanti. Migliora le risposte delle forze dell’ordine e proibisce la discriminazione contro le vittime LGBTQ. Il finanziamento è scaduto a settembre ed è stato solo temporaneamente prorogato.

Dovremmo continuare a combattere le aggressioni sessuali nei campus universitari, insistendo contemporaneamente su processi equi per la valutazione delle denunce. Il mese scorso, la segretaria all’Istruzione Betsy DeVos ha proposto modifiche alle regole del Titolo IX che disciplinano il trattamento delle molestie sessuali e delle aggressioni nei campus. Mentre alcuni cambiamenti renderebbero più equo il processo di gestione delle denunce, altri indebolirebbero la protezione delle sopravvissute. Ad esempio, le nuove regole pretendono si indaghino solo le denunce più gravi e solo quando vengono presentate ai funzionari designati. Le donne nei campus hanno già problemi a farsi avanti: perché dovremmo consentire alle istituzioni di ridurre il supporto loro fornito?

Scrivo questo come una donna che ha dovuto cambiare il mio numero di telefono settimanalmente perché ricevevo minacce di morte. Per mesi ho lasciato raramente il mio appartamento e quando l’ho fatto, sono stato inseguita da droni e fotografi a piedi, in moto e in auto. I tabloid che hanno pubblicato foto di me le hanno presentate in una luce negativa. Mi sentivo come se fossi sotto processo davanti al tribunale dell’opinione pubblica – e la mia vita e il mio sostentamento dipendevano da una miriade di giudizi ben al di fuori del mio controllo.

Voglio la garanzia che le donne che si fanno avanti per parlare di violenza ricevano maggiore sostegno. Stiamo eleggendo rappresentanti che sanno quanto profondamente teniamo a questa questione. Possiamo lavorare insieme per chiedere modifiche alle leggi, alle regole e alle norme sociali e per correggere gli squilibri che hanno plasmato le nostre vite.

Dove si parla di Johnny Depp? In che passo si denunciano le tremende violenze subite nel corso del matrimonio con l’attore?

Then two years ago, I became a public figure representing domestic abuse, and I felt the full force of our culture’s wrath for women who speak out.

Vorrei che confrontaste questa diffamante affermazione con i contenuti presenti al momento nel web, nei quali, sulla base di un fazzoletto strofinato brevemente sotto al naso, pseudogiornalisti insinuano che l’attrice sniffasse cocaina in aula.

Questo non è un articolo contro Johnny Depp: questo è un articolo contro il pubblico e le sue reazioni sguaiate alla sua causa di divorzio, che, iniziando con un ordine restrittivo emesso contro Depp, ci costrinse a scendere a patti con la possibilità che il tenero Jack Sparrow che visita i bambini negli ospedali, il sogno erotico di ogni donna che entrava nella pubertà ai tempi di Don Juan De Marco Maestro D’amore, quando si chiude alle spalle la porta di casa e poggia il copione, si trasforma in uno squallido maltrattante qualunque.

La desolante gogna virtuale imbastita oggi per Amber Heard non fa altro che confermarne la veridicità: quando una donna è pubblicamente coinvolta in un caso di violenza domestica la nostra società diventa intollerabilmente feroce nei suoi confronti, rendendo impossibile un equo processo.

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