Mamma si addormenta

Da quello che sono riuscita a ricostruire, la notizia è uscita a mezzo stampa il 22 gennaio, e i giornali concordavano tutti su un punto: una puerpera si è addormentata e ha soffocato il suo bambino di appena 3 giorni.

fonte: https://www.dire.it/22-01-2023/863359-neonato-morto-soffocato-mentre-la-madre-lo-allatta-lostetrica-non-condividere-il-letto-nei-primi-6-mesi/

Sebbene si tratti solo di un’ipotesi (molti giornali infatti titolano prudentemente “Bambino morto al Pertini, forse schiacciato dalla mamma mentre lo allattava“), il web – incapace di quel minimo sindacale di empatia che a fronte di una tragedia tanto dolorosa imporrebbe un minimo di pietosa prudenza – si scatena in una serie di titoli ad effetto che sottintendono inequivocabilmente un legame di causa ed effetto tra l’addormentarsi della povera donna (notate il grassetto qui sopra) e la morte del neonato.

Negarlo è inutile: se così non fosse, se tutti questi articoli non avessero rigirato crudelmente il coltello nella piaga, il padre non si sarebbe sentito in dovere di difendere la mamma rea di essersi addormentata quando non avrebbe dovuto. Se così non fosse, le mamma d’Italia non si sarebbero sollevate tutte insieme per far arrivare a questi genitori il loro affetto e il loro sostegno.

fonte: https://www.agi.it/cronaca/news/2023-01-22/mamma-si-addormenta-mentre-allatta-morto-neonato-a-roma-19752424/

Se si leggono più attentamente gli articoli, si scoprono due dettagli interessanti:

  1. la Procura ha aperto sì un’indagine, ma non contro la mamma, che in questa storia è parte lesa, bensì contro l’ospedale, forse colpevole di non aver offerto alla puerpera la dovuta assistenza;
  2. gli esperti che commentano a caldo la vicenda suggeriscono che la più probabile delle cause di morte è il Sudden Unexpected Postnatal Collapse (SUPC, ovvero collasso neonatale improvviso e inaspettato), un evento molto raro che si manifesta in un caso ogni 10mila nati sani nella prima settimana di vita e che sarebbe favorito dalla pratica del co-sleeping, ovvero dal lasciar dormire il neonato nel lettone.
fonte: https://www.laprovinciadicomo.it/stories/como-citta/il-neonato-soffocato-per-errore-dalla-mamma-il-medico-e-importante-sorvegliar_1450023_11/

Alzi la mano chi ha ricevuto questa informazione.

Io ho frequentato non uno ma ben due corsi preparto – ormai venti anni fa, ma comunque in regime di rooming in – e di questa SUPC o dell’importanza di rimettere subito il neonato nel lettino non ho mai sentito parlare. Anche fossi una tipa distratta – e lo sono – mossa da quel profondo e angosciante senso di inadeguatezza che accompagna ogni primipara, di corsi ne ho seguiti due, quindi ci metto la proverbiale mano sul fuoco: nessuno me lo ha mai detto. Tanto che ricordo perfettamente di averlo chiesto alla mia pediatra, una volta tornata a casa: “Ma tenere il bambino nel letto non è pericoloso? Non c’è il rischio che cada o che lo schiacci?” La risposta fu piuttosto lapidaria: “Perché, lei assume sostanze psicotrope?”

E poi: scheda di osservazioni? Controlli ogni 15 minuti? Assistenza giorno e notte? Ma di che parla questo signore?

Il panorama che emerge dalla valanga di reazioni che sono seguite al j’accuse della stampa contro la mamma dormigliona è molto, molto diverso.

Dalla mia pagina facebook, che è un granello di sabbia nel mare di solidarietà che ha inondato la rete:

Era il 2009 ,parto indotto, sono entrata in ospedale il 18 febbraio alle 7:30, ho partorito il giorno dopo alle 12:30.. ero esausta ,tanto da addormentarmi durante il parto.. l ostetrica scocciata dal fatto che non riuscissi a stare con gli occhi aperti..non so dove ho preso la forza per spingere.. sono stata lasciata col bambino da subito, fortunatamente ho avuto subito la montata lattea in quanto avevo finito da pochi mesi di allattare la sorella di 2 anni e mezzo, era tranquillo e ha dormito tutto il pomeriggio dandomi il tempo di riposare.. ho avuto anche io paura di addormentarmi mentre lo allattavo tanto che l ho fatto mentre c era il padre e poi l ho messo nella culla.. sono stata anche io fortunata ,sarei potuta essere anche io la mamma di Roma.. vorrei poter abbracciare quella mamma e dirle che non ha colpa.

Nel 2005, non al Pertini e non a Roma, fui lasciata sola col mio bimbo già la notte successiva al cesareo, effettuato nel primo pomeriggio. La prima notte Enrico dormì sereno accanto al mio letto, la seconda notte pianse invece continuamente e mi ritrovai sola solissima a camminare su e giù per il corridoio della maternità con lui in braccio. Ero arrivata al cesareo con occhiaie mai avute in vita mia né prima né dopo, dopo tre giorni di travaglio in cui non avevo mai dormito. Quindi ero stata operata e, ripeto, subito lasciata sola di notte con il bambino. Al terzo giorno mi dimisero, camminavo come Robocop e avevo ragadi sanguinanti ai capezzoli, ma non vedevo l’ora di andare via da lì e tornare a casa da mio marito. No, non sono una “comodona”, la prima cosa che feci appena tornata a casa fu darmi da fare. Con la sicurezza di avere altre persone accanto a me e al bambino. Sono favorevole al rooming in ma penso che sia qualcosa di molto diverso dalla situazione paradossale di lasciare sola una puerpera in un affollato reparto maternità. Le nostre madri erano già vittime di violenza ostetrica ma almeno non erano lasciate sole in questo modo dopo il parto. Ovvero mentre le tecniche chirurgiche sono migliorate, l’assistenza è peggiorata.

Io ho partorito febbraio 2021 con le restrizioni in pieno vigore per la Pandemia. Sono stata in ospedale 9 giorni. 4 giorni in osservazione e 5 giorni con mio figlio. Ero sfinita in un modo allucinante. Mio marito è stato chiamato a travaglio attivo. È rimasto fino al parto e le due ore successive. Fine. Per 5 giorni sono stata sola con il bambino. Nulla da dire sul personale medico. Però venivano, controllavano e andavano via. Già permettere a mio marito di stare un’ora al giorno sarebbe stato darmi la possibilità di fare una doccia, andare al gabinetto ( con i punti sapete che strazio). Sono stata sporca, con i capelli lerci praticamente dal pomeriggio del 22 febbraio fino al 27 sera. Ero sola in camera.

Potevo essere io” è immediatamente diventato un trending topic: i racconti di solitudine, sconforto, dolore fisico e senso di abbandono non si contano e tutti dipingono l’ospedale come un luogo dal quale le mamme non vedono l’ora di fuggire, per trovare conforto nel caldo abbraccio delle famiglie. Il personale preposto all’assistenza è per lo più assente in questi racconti e quando è descritto troppo spesso è dipinto così:

Mi sono sentita sola dalla prima notte che ho partorito, ho chiesto aiuto per cambiarlo e mi hanno fatto sentire un’incapace, ho chiesto aiuto per l’attacco e mi hanno fatto sentire un’incapace.

Ci sono anche donne che ringraziano un’ostetrica o un’infermiera affettuosa – sarebbe sciocco ignorarle – ma ce ne sono tante, troppe, che, ricordando con orrore quei primi giorni dopo il parto, hanno messo nero su bianco la loro verità: una mamma sola e stanca all’inverosimile, la cui richiesta di aiuto e conforto rimane inascoltata, lo sono stata anche io.

E, come è avvenuto per il #metoo, è giusto che anche questo grido collettivo non rimanga inascoltato.

Come spesso avviene quando le donne si sollevano per denunciare un ingiusto trattamento loro riservato in quanto donne, qualcuno si ingegna a costruire un argomento fantoccio per smorzare i toni e rimettere le indignate al loro posto.

In questi giorni leggiamo tanti accorati appelli in difesa del rooming in, delle buone pratiche consigliate dall’Unicef e dall’OMS, appelli che raccomandano alle mamme troppo emotive di non buttare il bambino con l’acqua sporca, perché a tornare indietro ci rimetterebbero soprattutto degli infanti innocenti, condannati a tornare ammassati nei nidi, soli e abbandonati se si insiste a protestare.

Lo so che è facile cascarci, ma non fatevi ingannare.

Nessuna ha chiesto che puerpere e neonati trascorrano separati i primi giorni dopo il parto, non siamo così stupide come vi piace dipingerci: stiamo solo dicendo che le madri sono esseri umani e in quanto tali hanno bisogno di dormire, di tanto in tanto, e che imporre la privazione del sonno è una forma di tortura, anche quando a subirla è una femmina che ha appena partorito.

Stiamo solo ribadendo che le donne sono esseri umani.

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Ged – Gender equality and diversity label: che genere di premio?

Al minuto 2:28 possiamo ascoltare una delle vincitrici dell’edizione 2020 del Premio Innovatori Responsabili, il (cito testualmente)

Premio regionale per la responsabilità sociale di impresa e l’innovazione sociale, istituito dall’art. 17 della Legge regionale n. 14 del 18 luglio 2014, Promozione degli investimenti in Emilia-Romagna, [che] valorizza le esperienze più significative realizzate dalle imprese emiliano-romagnole e da altri soggetti che attraverso iniziative di innovazione responsabile contribuiscono ad attuare gli obiettivi e i target indicati dall’ONU con l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.

La psicologa e psicoterapeta Maria Cristina Meloni è stata premiata nell’ambito delle segnalazioni GED – Gender equality and diversity label, che – come da regolamento (pagg.4 e 5) – è un premio assegnato

in attuazione dell’art. 30 della L.R. 6/2014, alla migliore buona pratica relativa ad azioni positive per le pari opportunità.

Per questo motivo, ovvero poiché la succitata legge si ispira ai principi espressi dalla Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW) e della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul),

ai fini dell’attribuzione di tale premio, come stabilito al punto 1.4 del Bando, è previsto il coinvolgimento della Commissione assembleare per la parità e i diritti delle persone.

Non è curioso che un simile riconoscimento, la cui creazione trova il fondamento in due fra le più importanti Convenzioni internazionali attestanti l’esistenza di un fenomeno sociale noto come “violenza contro le donne”, venga conferito ad una professionista fermamente convinta che “la violenza non ha genere“?

Anche senza voler entrare nel merito della sussistenza delle argomentazioni che la signora Meloni adduce a supporto della sua tesi, assegnarle il premio GED equivale ad assegnare ai nazisti dell’Illinois un posto nel Giardino dei Giusti: una contraddizione della quale è difficile darsi una spiegazione.

Come sono venuta a conoscenza di questo inspiegabile accadimento?

Grazie a Facebok e ad una lettera aperta che un nutrito gruppo di cittadine e cittadini indignati ha inviato ad una serie di personaggi politici (fra i quali spicca anche il Presidente Commissione per la parità e per i diritti delle persone della Regione Emilia Romagna) in occasione di un Convegno, valido a fornire 2 crediti formativi agli avvocati partecipanti, che si svolge a Piacenza oggi 21 gennaio 2023; il convegno, introdotto proprio dalla psicologa e psicoterapeuta Maria Cristina Meloni, affronta fra gli altri tutti i temi cari ai papà separati:

le false accuse

le false memorie

i bambini suggestionati.

(Per chi fosse digiuno sul particolare significato dell’espressione “papà separati”, vi rimando ad un testo vecchiotto ma sempre attuale, che spiega come la stessa non si riferisce ai genitori separati di sesso maschile).

Come molti studiosi del fenomeno “papà separati” hanno spiegato negli ultimi anni (perché, checché ne dica la signora Meloni, è tutt’altro che un fenomeno poco indagato, sebbene non lo sia nei termini che usa lei nelle sue interviste) la lettura della violenza contro le donne fornita dal femminismo è un punto chiave dell’attivismo dei gruppi di attivisti per i diritti dei papà; promuovere una lettura della violenza “interpersonale” (e delle politiche in merito) priva di qualsivoglia connotazione di genere, infatti, è funzionale alla loro battaglia, mirata a difendere il disequilibrio di potere a favore dell’uomo all’interno della struttura familiare e il dominio maschile nella società.

Per farlo gli attivisti e le loro fiancheggiatrici diffondono analisi prive di fondamento nella ricerca empirica e dati inventati, come ad esempio quello fornito dalla signora Meloni al sito Il Piacenza linkato qualche paragrafo addietro:

Ogni anno sono circa 200 i padri che si suicidano perché le ex mogli gli impediscono di vedere i figli o li hanno accusati di un grave e falso reato.

Da dove salta fuori questo numero? Chi ha condotto uno studio statistico sui suicidi dei padri e dove è stato pubblicato?

Ve lo dico io: nessuno lo ha condotto e non ci sono pubblicazioni. E’ un dato falso e diffuso allo scopo di supportare l’idea balzana che parlare di violenza contro le donne equivalga rendersi colpevoli di discriminazione di genere.

Sono pronta a ricredermi ed a chiedere scusa se qualcuno mi fornisce una fonte di questo numero che non sia La Fionda o il presidente dell’associazione “Nessuno tocchi papà” Walter Buscema, che vanta la medesima autorevolezza come esperto di studi statistici che posso vantare io.

Ma siccome sono abbastanza certa che nessuno si farà avanti con qualcosa di più concreto, sono qui a chiedervi se la Commissione per la parità e per i diritti delle persone della Regione Emilia Romagna, nel rispetto di tutte le vittime, non debba dire e fare qualcosa per rimediare all’assegnazione sciagurata del premio GED alla signora Meloni, che, magari sarà stata brava ad imbrogliarli all’epoca, ma oggi si dimostra soprattutto impegnata nel creare un clima saturo di ostilità e sospetto attorno a chiunque decida di denunciare la violenza maschile contro le donne.

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Modifica dell’articolo 1 del Codice civile in materia di riconoscimento della capacità giuridica dello spermatozoo

Il 20 novembre 1989, è stata approvata la Convenzione universale sui diritti del fanciullo, di cui alla legge 27 maggio 1991, n. 176. Essa ha trasformato in atto giuridicamente vincolante per i 193 Stati che l’hanno ratificata la precedente dichiarazione del 20 novembre 1959. Così come in quest’ultima era già stato proclamato, la Convenzione del 1989 ripete, nel preambolo, che “il fanciullo, a causa della sua mancanza di maturità fisica ed intellettuale, necessita di una protezione e di cure particolari, ivi compresa una protezione legale appropriata, sia prima che dopo la nascita.” Quel “prima” è stato per anni il fondamento giuridico di proposte volte a modificare il nostro ordinamento al fine di garantire dignità di essere vivente pienamente umano per mezzo della concessione della capacità giuridica (l’attitudine alla titolarità di diritti e di doveri giuridici, ovvero la sua capacità di essere soggetto di diritti e di obblighi) a quel risultato di complessi e noti processi biochimici e cellulari che hanno luogo fra l’ovulo femminile e lo spermatozoo maschile nelle prime 24 ore dopo l’amplesso all’interno del corpo della donna, comunemente indicato dall’espressione “il concepito”.

Tali proposte, a nostro avviso, si fermano troppo presto: se è sufficiente la mera possibilità che tale commistione di patrimoni genetici si evolva nell’essere riconoscibile come umano, autonomo e indipendente che nove mesi dopo vedrà la luce, distaccandosi dal corpo della madre, perché non attribuire anche alla porzione di patrimonio contenuta nella singola cellula gametica la dignità di persona umana?

Su che basi affermiamo che la cellula fecondata è il primo stadio dell’essere vivente, e non riconosciamo invece che il primo stadio della riproduzione umana è proprio la produzione di cellule aploidi la cui unica funzione è quella di fondersi al fine di dare vita ad un essere vivente?

Viviamo un momento storico particolarmente preoccupante: la capacità riproduttiva maschile è in costante diminuzione. Uno studio della Hebrew University e pubblicato sulla rivista Human Reproduction Update che ha passato in rassegna 185 studi riguardanti quasi 43 mila uomini dimostrerebbe al di là di ogni ragionevole dubbio che la conta spermatica in Occidente in tempi preoccupantemente brevi si è dimezzata: ci i dati che negli ultimi 40 anni la concentrazione di spermatozoi nell’eiaculato maschile è calata del 52%, e il loro numero totale del 60%.

Insomma, negli ultimi decenni, nell’indifferenza generale, si è consumata una moria silenziosa e senza spiegazioni degli spermatozoi: da 99 milioni a 47,1 milioni per millilitro. Un’ecatombe, in termini di fertilità.

Scienziati e filosofi si sono interrogati a lungo sulla distinzione dei vari stadi dello sviluppo prenatale, dalla fecondazione alla nascita. Difficilmente, invece, qualcuno si è spinto a riconoscere l’origine dell’essere umano nelle sue componenti separate quando esse albergano degli individui di sesso maschile e femminile. Eppure, le medesime domande che ci poniamo sullo status del feto, potrebbero tranquillamente essere poste sulle cellule che a quel feto danno origine, giungendo alle medesime conclusioni.

Potremmo ad esempio chiederci se, nel momento in cui lo spermatozoo è generato all’interno delle gonadi maschili, esso è ancora parte integrante del corpo dell’uomo oppure è da considerarsi parte integrante della persona che quello spermatozoo ha il potere di generare, soprattutto alla luce del fatto che lo spermatozoo è generato all’interno del corpo umano per essere espulso da quel corpo. Se al termine del periodo “gestazionale” dello spermatozoo (con il termine virgolettato ci riferiamo al periodo che la cellula trascorre all’interno dell’apparato riproduttore maschile per giungere a piena maturazione), esso non viene eiaculato per iniziare il suo viaggio verso la sua metà, con il passare del tempo degenera – potremmo dire che invecchia – e muore, senza aver assolto all’interno del corpo maschile alcuna funzione utile al suo sviluppo.

Coloro che ritengono che lo zigote sin dai primi momenti sia da considerarsi persona, ritengono che ciò che ci rende unici, individui, appunto, è il nostro patrimonio genetico. Se supponiamo che questa affermazione sia vera, dobbiamo ammettere che altrettanto unica e irripetibile è quella parte del patrimonio genetico che andrà a costituire il tutto, anche prima di unirsi alla sua metà: perché non è forse vero che se di un essere umano per qualunque ragione ne restasse soltanto la metà – a causa di un trauma o di una patologia – essa rimarrebbe sempre e comunque una persona?

La tutela dello spermatozoo, cellula a rischio in un’ambiente ostile che ha già sterminato una infinità di specie viventi tra animali e vegetali ponendo fine alla loro esistenza sulla terra, merita l’attenzione del nostro ordinamento, e rientra in quella tutela del bambino in quanto soggetto bisognoso di cure particolari cui la Convenzione universale sui diritti del fanciullo ci vincola.

La spermapocalypse è alle porte: spetta a noi intervenire tempestivamente per tutelare la vita umana su questo pianeta.

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Chloe

fonte : Rights of Women

Cosa si intende con “controllo coercitivo”?

Parliamo di “controllo coercitivo” quando una persona con la quale hai un legame personale si comporta ripetutamente in modo da farti sentire controllata, dipendente, isolata o spaventata.

A seguire alcuni esempi di controllo coercitivo:

  • ti isola da parenti e amici
  • controlla quanto denaro hai a disposizione e come lo spendi
  • monitora le tue attività e i tuoi spostamenti
  • ti denigra costantemente con epiteti infamanti o accusandoti di non valere niente
  • minaccia di farti del male o di ucciderti o minaccia i tuoi bambini
  • minaccia di rendere pubbliche informazioni su di te o di denunciarti alla polizia o alle autorità
  • danneggia le tue proprietà o quelle familiari
  • ti costringe a prendere parte ad azioni criminali o ad abusi sui bambini.

Alcuni dei comportamenti qui elencati possono costituire altre fattispecie di reato oltre al controllo coercitivo, motivo per cui il maltrattante può essere imputato di più reati per il medesimo comportamento. Ad esempio, se rompere il tuo telefono rientra fra le azioni che compie per controllarti, piò essere accusato di controllo coercitivo e danneggiamento.

Il maltrattante verrà ritenuto colpevole di controllo coercitivo se

  1. ha un legame personale con te
  2. il suo comportamento ha seri effetti su di te e
  3. se è consapevole o avrebbe dovuto sapere che il suo comportamento avrebbe avuto un grave effetto su di te.

Ultimamente mi sono dedicata al passatempo prediletto dai più in questo momento storico e ho scovato una serie TV che mi ha felicemente impressionato: Chloe.

ATTENZIONE: ABBONDERO’ CON GLI SPOILER.

Questa miniserie (credo si debba definire miniserie qualsiasi prodotto con solo una stagione, ma correggetemi se sbaglio) a mio avviso affronta magistralmente uno degli aspetti più controversi della violenza domestica, ovvero la sua invisibilità.

La violenza domestica -, in questo particolare caso quella declinazione della violenza domestica che prende il nome di “controllo coercitivo” (punito espressamente dalla legge in Inghilterra e Galles dal 2015) – è così invisibile che nessuna delle recensioni della serie la cita espressamente, nonostante il mistero della morte della giovane socialite Chloe Fairbourne, che la protagonista è determinata a svelare con ogni mezzo, non si risolva nel modo più ovvio: è stato il marito.

A voler essere più precisi e allo scopo di togliervi ogni gusto di arrivare allo svelamento del finale, non sappiamo per certo se la povera Chloe, trovandosi preclusa ogni via di fuga da una relazione soffocante oltre il limite della tollerabilità, abbia deciso di gettarsi dalla scogliera o se a spingerla sia stato il suo aguzzino, esasperato dalla sua ostinazione a lasciarlo, perché, nonostante fosse fisicamente presente al momento della morte, la madre della vittima a proposito delle dinamiche dichiara: “Non so che cosa ho visto”, regalandoci una straordinaria epitome del discorso sull’invisibilità della violenza di cui sopra.

Interessante il fatto che per alcuni spettatori l’unica violenza visibile e nominabile sia quella della protagonista:

Incontriamo la protagonista di questa serie, Becky Green, nel suo squallido appartamento di periferia, che divide con la madre affetta da demenza, mentre si prepara ad affrontare un nuovo lavoro interinale da segretaria. Ogni inquadratura trasuda solitudine e frustrazione. La osserviamo mentre scrolla i post sul suo smartphone e notiamo che è interessata ad un’unica utente, della quale segue ogni spostamento, ogni messaggio, ogni contatto, ma con la quale non interagisce mai direttamente. Becky Green è chiaramente ossessionata dalla vita di Chloe Fairbourne, che è bella, sorridente, elegante e circondata da amici altolocati con i quali conduce una vita mondana e festaiola, ma questo la rende una stalker?

L’utilizzo improprio di una definizione che descrive un comportamento criminale ci dà la misura di quanto radicalmente frainteso sia il fenomeno e di quanto il pregiudizio di genere vizi la nostra capacità di giudizio.

Il reato di stalking nel nostro ordinamento è definito “atti persecutori”: lo stalker non osserva, lo stalker agisce, mette in atto una serie di comportamenti, ripetuti nel tempo, tali da provocare nella vittima un perdurante stato di ansia e paura, un fondato timore per la propria incolumità e quella dei propri cari, e la costringe a cambiare radicalmente le sue abitudini.

Prima della morte di Chloe non c’è nulla nel comportamento di Becky Green che configuri il reato di stalking; finché non scopriamo che poco prima di morire Chloe ha tentato di contattare proprio Becky, per quello che ne sappiamo le due potrebbero non essersi mai incontrate e l’ossessione di Becky potrebbe essere nata dal fatto che Chloe, in quanto graziosa moglie di un promettente politico locale, è più visibile sui social di altre ragazze del bel mondo.

Certo, Becky Green non è un’incolore ragazzetta dai bassi natali che si limita a sognare un’esistenza fatta di serate di beneficenza, feste private, sfilate di moda, raccolte fondi, festival e altri eventi esclusivi mentre ingoia cereali e sospira seduta in cucina; come l’antieroina di Thackeray di cui porta il nome, non esita a manipolare frammenti di informazioni e conversazioni ascoltate, date, nomi su inviti, persino a rubare per intrufolarsi in quella fiera delle vanità che la sua sfortunata condizione le precluderebbe, e questo la rende una protagonista più intensa, sfaccettata e interessante di quanto lo siano mai state le giovinette tutta virtù alla Samuel Richardson, per restare nell’ambito delle similitudini letterarie.

Per quanto eticamente discutibili siano le scelte che compie prima e dopo la morte di Chloe, il viaggio sotto mentite spoglie che Becky intraprende per riappropriarsi dell’amica perduta a me ha fatto pensare ad vecchio film degli anni ’80 – di cui c’è anche un discutibile remake americano – Il mistero della donna scomparsa; nel film l’unico modo in cui il protagonista può riappacificarsi con l’improvvisa e inspiegabile scomparsa della sua amata in una stazione di servizio è accettando di vivere sulla sua pelle quello che le è accaduto dal momento in cui ha incontrato il suo aguzzino.

C’è sicuramente una critica feroce al classismo della società britannica nella serie, alla vacuità e all’ipocrisia di una classe dirigente fatua ed egoista, e si accenna anche a quanto i social network alimentino l’insoddisfazione di chi si misura ossessivamente con i siparietti degli influencer del momento, ma l’aspetto che io ho apprezzato di più è che, insieme a Becky, grazie alla sua folle determinazione nel rispondere, seppure troppo tardi, all’ultimo grido d’aiuto della sua vecchia amica, scopriamo quanto sia subdola e strisciante la violenza domestica, come riesca ad intrufolarsi nella vita di una donna senza che le persone più care si rendano conto di ciò che realmente sta accadendo, senza che la stessa vittima se ne renda conto se non troppo tardi, quando ogni sua richiesta di comprensione e supporto assume la forma sinistra delle farneticazioni di un’ingrata bisognosa di sedativi e tanta terapia.

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Il processo Depp-Heard e la violenza domestica

Quanto sta avvenendo in Virginia fra l’attore Johnny Depp e l’ex moglie Amber Heard è impossibile da ignorare, se sei munito di smartphone ed iscritto ad uno o più social network. Il web è letteralmente infestato da materiale inerente alla causa giudiziaria, la maggior parte del quale è materiale veramente, veramente inquietante.

Un esempio per chiarire cosa intendo con inquietante: nel corso di una testimonianza, Amber Heard si è interrotta per un momento brevissimo a causa uno spasmo involontario del volto e quei pochi secondi di video hanno ispirato centinaia di “creativi” che si sono spesi in brevi “parodie” di quello spasmo.

Molte delle persone che si dilettano in questi imbarazzanti siparietti sono persone adulte, dalle quali ci si aspetterebbe un comportamento più maturo e rispettoso della delicatezza del tema, soprattutto alla luce dei dati sulla violenza maschile contro le donne, che nel mondo colpisce una donna su 4; in Italia ogni giorno sono 89 le donne vittime di violenza di genere e nel 62% di casi si tratta di maltrattamenti in famiglia.

C’è molto poco di cui ridere, sia che si ritenga l’attore colpevole delle aggressioni che gli vengono contestate (e che secondo il verdetto che assolse il tabloid The Sun dall’accusa di diffamazione “sono sono state provate secondo gli standard civili” nel corso del processo svoltosi in Inghilterra poco tempo fa), sia che si abbia maturato la convinzione che Amber Heard sia l’incarnazione della psicopatica Amy di Gone Girl e abbia trascorso gli anni del matrimonio con l’attore elaborando un “astuto” piano per costruire false accuse contro un uomo colpevole soltanto di essere troppo buono e troppo sbronzo per accorgersene.

Purtroppo, se c’è una cosa che questo processo ha messo in luce è che, a dispetto della risonanza che negli USA e nel mondo ha avuto il movimento #metoo – spesso e volentieri citato a sproposito, in questi giorni – siamo ancora molto, molto lontani da una diffusa consapevolezza dell’entità e della natura del fenomeno della violenza sulle donne.

Solo una profonda e radicata ignoranza può spiegare il fatto che il pubblico accetti di buon grado che, messo di fronte al video come quello in cui dà in escandescenze in cucina, Johnny Depp si giustifichi chiedendo:

“Non cercavo di intimidire Miss Heard. Se lei si fosse spaventata perché filmava? Se fosse stata terrorizzata a morte, perché non è scappata?

Se dopo anni di campagne sulla violenza domestica siamo ancora bloccati a “perché non se ne è andata“, significa che tutto ciò che viene detto e ripetuto ad nauseam sulle dinamiche che si instaurano fra vittima e perpetratore ci entra da un orecchio per uscire immediatamente dall’altro senza lasciare all’interno delle teste la più piccola traccia di sé.

A rendere particolarmente irritante la domanda, inoltre, è che a porla senza alcun timore di suscitare reazioni stizzite è un uomo che si proclama lui stesso vittima di violenza domestica, un uomo che racconta di essere rimasto accanto ad una donna che lo umiliava, lo vessava, lo picchiava, nonostante quella donna lo umiliasse, lo vessasse e lo picchiasse.

Tu quoque, Johnny Depp?

Ma lui, diranno i fan, lui aveva ottime ragioni per restare.

La triste realtà della violenza domestica, il motivo per cui la violenza domestica ha di fatto un genere e un sesso ben precisi è che, quando si tratta di darsi ragione di un comportamento di lui e di un comportamento analogo di lei, gli argomenti di lui sono plausibili mentre lei, ovviamente, sta mentendo.

Perché lui è un uomo e lei è una donna.

Ecco perché quando spunta qualcuno che fa notare la somiglianza fra i tailleur di lei e il doppiopetto di lui (come se i vestiti a giacca potessero avere fogge diversissime da quelle che ha ogni vestito a giacca dal giorno in cui abbiamo deciso che la giacca ci conferisce un’aura di serietà) è per forza lei che sta copiando lui – non lui che sta copiando lei – e subito compare qualche articolo che cita la psicologa de noantri a spiegarci che la giacca scura di lei è un evidente sintomo del suo stato mentale da psicopatica Amy.

Molti di quelli che si appassionano a queste balzane teorie fondate solo ed esclusivamente su contenuti farlocchi resi virali dal tam tam social – pensate ad esempio alla frase incriminata della dichiarazione d’apertura di Amber Heard, che sarebbe rivelatrice del suo essere una bugiarda cronica e che non è mai stata pronunciata – dimenticano che questo non è un processo per violenza domestica, bensì un processo per diffamazione.

Il motivo per cui Amber Heard è stata nuovamente trascinata in tribunale è un articoletto pubblicato nel 2018: I spoke up against sexual violence — and faced our culture’s wrath. That has to change.

Andiamo a vedere cosa scriveva la nostra psicopatica Amber:

Ho subito abusi in tenera età. Ci sono verità che ho sempre saputo, senza che me le dicessero mai. Sapevo che gli uomini detengono il potere – fisicamente, socialmente e finanziariamente – e che molte istituzioni supportano questo stato delle cose. Lo sapevo molto prima di avere le parole per dirlo, e scommetto che l’hai imparato anche tu quando eri molto giovane giovane.

Come molte donne, sono stata molestata e aggredita sessualmente quando avevo l’età per il college. Ma non ho mai denunciato: non ho mai creduto che sporgere denuncia mi avrebbe reso giustizia. E non mi vedevo come una vittima.

Poi, due anni fa, sono diventata una figura pubblica che rappresentava gli abusi domestici e ho sentito tutta la forza dell’ira della nostra cultura per le donne che denunciano.

Amici e consulenti mi dicevano che non avrei mai più lavorato come attrice, che sarei stata inserita nella lista nera. Avrei dovuto prendere parte ad un film ma il mio ruolo è stato riassegnato. Avevo appena firmato per una campagna di due anni come volto di un marchio di moda ma l’azienda mi ha abbandonato. Si è discusso sull’opportunità che mantenessi il mio ruolo di Mera nei film “Justice League” e “Aquaman”.

Ho avuto il raro vantaggio di vedere con i miei stessi occhi come le istituzioni proteggono gli uomini accusati di abusi.

Immagina un uomo potente come fosse una nave, come il Titanic. Quella nave è una grande impresa. Quando colpisce un iceberg, ci sono molte persone a bordo che cercano disperatamente di riparare i buchi, non perché ripongono la loro fiducia nella nave o si tengano ad essa, ma perché il loro destino dipende dall’impresa.

Negli ultimi anni, il movimento #MeToo ci ha insegnato come funziona un potere come questo, non solo a Hollywood ma in tutti i tipi di istituzioni: luoghi di lavoro, luoghi di culto o semplicemente in comunità particolari. Le donne di ogni ceto sociale si confrontano con questi uomini che sono sostenuti dalla loro autorevolezza, dal potere economico e culturale. E queste istituzioni stanno cominciando a cambiare.

Siamo in un momento di grandi cambiamenti. Il presidente del nostro Paese è stato accusato da più di una dozzina di donne di cattiva condotta sessuale, comprese aggressioni e molestie. L’indignazione per le sue dichiarazioni e il suo comportamento ha stimolato un’opposizione guidata dalle donne. Il #MeToo ha avviato un dibattito su quanto profondamente la violenza sessuale permei ogni aspetto della vita delle donne E il mese scorso, sono state elette al Congresso più donne che mai nella nostra storia, con il mandato di prendere sul serio i problemi di noi tutte. La rabbia e la determinazione a porre fine alla violenza sessuale si stanno trasformando in una forza politica.

Ora abbiamo la possibilità di rafforzare e costruire istituzioni che proteggano le donne. Per cominciare, il Congresso può rifinanziare e rafforzare la legge sulla violenza di genere. Approvato per la prima volta nel 1994, l’atto è uno dei più efficaci emanati per combattere la violenza domestica e le aggressioni sessuali. Crea sistemi di supporto per le persone che denunciano abusi e fornisce finanziamenti per i centri antiviolenza, programmi di assistenza legale e altri servizi importanti. Migliora le risposte delle forze dell’ordine e proibisce la discriminazione contro le vittime LGBTQ. Il finanziamento è scaduto a settembre ed è stato solo temporaneamente prorogato.

Dovremmo continuare a combattere le aggressioni sessuali nei campus universitari, insistendo contemporaneamente su processi equi per la valutazione delle denunce. Il mese scorso, la segretaria all’Istruzione Betsy DeVos ha proposto modifiche alle regole del Titolo IX che disciplinano il trattamento delle molestie sessuali e delle aggressioni nei campus. Mentre alcuni cambiamenti renderebbero più equo il processo di gestione delle denunce, altri indebolirebbero la protezione delle sopravvissute. Ad esempio, le nuove regole pretendono si indaghino solo le denunce più gravi e solo quando vengono presentate ai funzionari designati. Le donne nei campus hanno già problemi a farsi avanti: perché dovremmo consentire alle istituzioni di ridurre il supporto loro fornito?

Scrivo questo come una donna che ha dovuto cambiare il mio numero di telefono settimanalmente perché ricevevo minacce di morte. Per mesi ho lasciato raramente il mio appartamento e quando l’ho fatto, sono stato inseguita da droni e fotografi a piedi, in moto e in auto. I tabloid che hanno pubblicato foto di me le hanno presentate in una luce negativa. Mi sentivo come se fossi sotto processo davanti al tribunale dell’opinione pubblica – e la mia vita e il mio sostentamento dipendevano da una miriade di giudizi ben al di fuori del mio controllo.

Voglio la garanzia che le donne che si fanno avanti per parlare di violenza ricevano maggiore sostegno. Stiamo eleggendo rappresentanti che sanno quanto profondamente teniamo a questa questione. Possiamo lavorare insieme per chiedere modifiche alle leggi, alle regole e alle norme sociali e per correggere gli squilibri che hanno plasmato le nostre vite.

Dove si parla di Johnny Depp? In che passo si denunciano le tremende violenze subite nel corso del matrimonio con l’attore?

Then two years ago, I became a public figure representing domestic abuse, and I felt the full force of our culture’s wrath for women who speak out.

Vorrei che confrontaste questa diffamante affermazione con i contenuti presenti al momento nel web, nei quali, sulla base di un fazzoletto strofinato brevemente sotto al naso, pseudogiornalisti insinuano che l’attrice sniffasse cocaina in aula.

Questo non è un articolo contro Johnny Depp: questo è un articolo contro il pubblico e le sue reazioni sguaiate alla sua causa di divorzio, che, iniziando con un ordine restrittivo emesso contro Depp, ci costrinse a scendere a patti con la possibilità che il tenero Jack Sparrow che visita i bambini negli ospedali, il sogno erotico di ogni donna che entrava nella pubertà ai tempi di Don Juan De Marco Maestro D’amore, quando si chiude alle spalle la porta di casa e poggia il copione, si trasforma in uno squallido maltrattante qualunque.

La desolante gogna virtuale imbastita oggi per Amber Heard non fa altro che confermarne la veridicità: quando una donna è pubblicamente coinvolta in un caso di violenza domestica la nostra società diventa intollerabilmente feroce nei suoi confronti, rendendo impossibile un equo processo.

Sullo stesso argomento:

A trial by TikTok and the death knell for MeToo. Who won Depp v Heard?

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Acquiescenza

Ipotesi: l’appartenenza a un gruppo porta l’individuo a modificare il proprio comportamento, i propri giudizi e, in una certa misura, le proprie percezioni per conformarsi alle aspettative del gruppo.

(fonte: La pressione dei pari)

Lo abbiamo letto tutti: Ospite di Accordi&Disaccordi sul Nove, il professor Alessandro Orsini avrebbe incautamente affermato:

La Seconda Guerra Mondiale non è scoppiata, come molti pensano, perché a un certo punto Hitler ha deciso di attaccare l’Inghilterra, la Francia, la Polonia e la Russia. Hitler non aveva nessuna intenzione di far scoppiare un conflitto mondiale. Quello che è successo è che i Paesi europei hanno creato delle alleanze militari, ognuna delle quali conteneva un articolo 5 della Nato, cioè un articolo che prevedeva nel caso di attacco di un Paese straniero che tutti i membri della coalizione sarebbero entrati in guerra”. Per questo motivo “quello che successe è che il 1 settembre del ’39 la Germania invase la Polonia. Inghilterra e Francia si erano alleati con la Polonia e si creò un effetto domino, a cui Hitler non aveva interesse e che Hitler non si aspettava nemmeno che scattasse. (fonte)

Apriti cielo.

La condanna è pressoché unanime: Orsini sta male, è disturbato, è vittima del suo patologico bisogno di attenzione; non si spiega come un soggetto del genere possa circolare liberamente, ma perché infilarlo in TV a disquisire di conflitti mondiali?

Eppure questa tesi io ricordo di averla già sentita, e non da Orsini. Così faccio mente locale e in breve recupero un video datato 2020, due anni fa:

A parlare è Alessandro Barbero, anche lui emerito professore.

Seguite il suo discorso fino al sesto minuto, quando affronta la Seconda Guerra Mondiale.

“La guerra” dice Barbero “non la voleva neanche Hitler“.

Un minuto dopo circa (7:30): “Hitler non ha nessuna intenzione di scatenare una guerra mondiale“.

Ed ora passiamo al tenore dei commenti sotto al video:

Fenomenale, straordinario, date una medaglia a quest’uomo!

Se si scorrono i commenti, qualche dubbioso lo si trova (Ma, insomma… Hitler non voleva la guerra? .. Strano visto che iniziava già nel 33 ad armarsi fino ai denti contravvenendo ai trattati … Se la Germania nazista avesse avuto il peso militare dell’Albania o dell’Abissinia probabilmente non avrebbe annesso nemmeno un sassolino da nessuna parte…. quindi Se l’Europa intera ha lasciato mano libera a Hitler è perché tutti sapevano dell’enorme forza militare di cui disponeva la Germania e nessuno in Europa in quegli anni era in grado di contrastarla… L’Europa in altre parole ha dovuto fare forzatamente buon viso a cattivo gioco… ma Hitler in cuore suo sapeva benissimo che quelle concessioni non sarebbero durate in eterno e che prima o poi avrebbe dovuto dare la parola ai panzer… E così è stato di lì a pochissimo – scrive rispettosamente uno spettatore), ma nessuno invoca un TSO per il professor Barbero.

Ora, non entro nel merito delle intenzioni di Adolf Hitler perché non è questo il tema del post e perché trovo poco interessante qualsivoglia processo alle intenzioni (spero non lo faccia neanche chi ha la sventura di passare di qua), ma mi viene spontaneo chiedermi il perché di reazioni così diverse a fronte di un messaggio che a mio avviso è sostanzialmente identico, seppure nel caso di Orsini venga poi utilizzato per una analisi della situazione attuale.

E credo che tutti dovremmo porci una domanda del genere.

Ho esordito suggerendo di approfondire uno studio sul comportamento umano mirato ad indagare le ragioni che spingono le masse ad adeguarsi acriticamente alla voce predominante.

Mi piacerebbe riflettessimo sul fatto che siamo creature fragili, noi esseri umani, dominate da un lato dal bisogno di conformarci alla maggioranza e dall’altro dal terrore di ammetterlo con noi stessi.

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I maschilisti e la guerra

Dionisia Calderon vende frutta e patate nel suo villaggio natale di Morochucos, Ayacucho, Perù. la 54enne ha subito numerose perdite durante il conflitto interno che ha portato violenza e sofferenza nella regione. Il suo primo marito è scomparso senza lasciare traccia. Anche il suo secondo marito è stato preso e torturato duramente. In seguito è morto per le ferite riportate. Rifiutandosi di vivere silenziosamente dopo le ingiustizie inflitte a lei e alla sua famiglia, è diventata una rappresentante delle donne che hanno subito abusi sessuali durante il conflitto. “Mi dicevo: ‘Perché sono nata donna? Perché non sono nata uomo?’ Noi donne ne abbiamo passate tante, con i soldati e il Shining Path. È stato difficile. È stato difficile sopportare tutta quella violenza. Siamo state tutte emarginate, criticate per quello che abbiamo passato. Mi sono sentita male. Devo la mia vita a quelle donne che mi hanno detto: “Non sei quello che pensi di essere. Non sei quello che la gente dice di essere, perché quelle persone non lo sanno. Sei una donna e una combattente. Devi continuare a combattere . Devi affrontare queste cose.’ Sono stata una vittima del conflitto armato interno e poi sono diventata una donna che combatte per la giustizia e la verità”.

da Women and war

La home page del sito della linea “war paint”, il nécessaire da trucco per i veri uomini, quelli che vogliono essere belli belli in modo assurdo ma al contempo vogliono prendere le distanze da quei gender non-conforming che entrano con nonchalance nelle profumerie da donna. War paint significa letteralmente “vernice da guerra“.

Sebbene ultimamente è più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago che qui venga pubblicato qualcosa, non ho mai perso il mio fan club di affezionatissimi maschilisti: devo ammetterlo ragazzi, state dimostrando la tenacia di Hachikō e se non foste irritanti come le meduse sarei quasi commossa da tanta fedeltà.

Qualche tempo fa ho deciso di pubblicare qualche riga di Bertha von Suttner, la prima donna a ricevere il premio Nobel per la pace per il suo instancabile e fremente attivismo per l’abolizione della guerra. Puntuali come una colica dopo una cena piccante sono arrivate due vittime della discriminazione di genere contro i poveri maschi a lamentarsi del fatto che non avessi deciso, piuttosto, di pubblicare un accorato appello contro la coscrizione obbligatoria degli ucraini, costretti a morire in guerra mentre le donne fuggono dal paese:

Voglio sapere cosa ne pensi tu del fatto che in Ucraina non ci sono le Pari Opportunità a definire chi resta a combattere e chi invece se ne va.

E che nella guerra si riscoprono ruoli più che tradizionali, assolutamente patriarcali, nei quali tra uomo e donna ci sono nettissime differenze, e grazie ai quali sono solo gli uomini che combattono.

Non so se ricordate, ma un paio d’anni fa avevamo accennato a questo cavallo di battaglia della propaganda MRA (Men’s Rights Activists) a proposito di Den Hollander, un fanatico incel che uccise a colpi di arma da fuoco il figlio ventenne della giudice Esther Salas, colpevole di aver presieduto alla discussione della causa che Den Hollander aveva intentato contro il Selective Service System (un’agenzia indipendente del governo degli Stati Uniti che raccoglie informazioni su coloro che potenzialmente sono soggetti a coscrizione militare) per discriminazione: la registrazione, infatti, è riservata ai soli uomini. L’aspetto più tragico della vicenda è che la giudice Salas, seppur contestando alcuni degli argomenti, aveva giudicato fondato il reclamo di Hollander e decretato che vi fossero gli estremi per procedere in tribunale. La decisione di Salas non è bastata a placare l’odio di Hollander per le donne in quanto donne e a farne le spese è stato un ragazzo innocente: Daniel Anderl, studente universitario, freddato sulla porta di casa dopo aver aperto a quello che sembrava un fattorino della Fed Ex.

Allo stesso modo, ha poco senso rispondere a questi leoni da tastiera che sei una pacifista (come molte, anche se non tutte, le femministe) e quindi contraria alla coscrizione obbligatoria, non soltanto perché è una violazione del diritto del singolo di astenersi dall’uso delle armi, ma perché è parte integrante del processo di costruzione di un idea di uomo confacente al sistema patriarcale, un uomo che – come racconta il sito di make up per veri maschi “War Paint”, non si imbelletta come un queer qualunque, ma per piacersi e per piacere si tinge dei colori della guerra; a loro non importa nulla della coscrizione obbligatoria, degli ucraini costretti ad imbracciare un fucile volenti o nolenti dal 2014 (sul servizio militare in Russia e gli orrori che comporta consiglio a tutti/e la lettura de “La Russia di Putin”, di Anna Politkovskaja – che per inciso è una donna che ha perso la vita a causa della sua tenacia nel diffondere le ingiustizie perpetrate anche ai danni dei soldati in un esercito corrotto e spietato), né sono interessati a dare il via ad una campagna contro il servizio di leva accanto alle attiviste che scrivono ed operano sul campo contro tutte le guerre dai tempi di Bertha von Suttner.

La critica alla coscrizione obbligatoria, nella mente del maschilista di nuova generazione, assolve la medesima funzione che assolveva l’esclusione dagli eserciti – e quindi dalla difesa della patria – delle donne: sancirne quella biologica inferiorità morale in grado di giustificare la sua insignificanza politica.

A fronte della crudeltà di uomini che prima creano un sistema, fondato sul primato della forza bruta sul raziocinio, a loro uso e consumo e poi accusano di egoismo e viltà le donne perché non si ribellano ai danni che quel sistema procura non a tutti gli esseri umani, ma soltanto agli uomini stessi (operando quel virtuoso ribaltamento della frittata in cui i maschilisti del nuovo millennio sono diventati tanto bravi), ci sono e ci sono state sempre una gran quantità di donne che si sono espresse non soltanto contro le atrocità che la guerra infligge loro – che hanno sempre dovuto affrontarla disarmate e prive di qualsivoglia addestramento – ma anche e soprattutto contro l’ingiusta morte degli uomini in essa coinvolti:

Sconfortata tu rivolgi lo sguardo all’ultima tua speranza, a tuo figlio che hai vestito della tua carne, hai nutrito del tuo sangue, hai cresciuto a spese del tuo digiuno, del tuo lavoro, del tuo riposo e che sarà il tuo orgoglio e il tuo sostegno. No, infelice, t’inganni ancora. Or che l’hai fatto e cresciuto, il re te lo prende per farne puntello al suo trono e lo assoggetta a fiera disciplina onde assicurarsi della sua ribellione. Chi non ha fatto nulla per tuo figlio può tutto su di lui, tu che hai fatto tutto non ci puoi nulla. Se tuo figlio è morto in guerra e il re ha vinto non ti è permesso di piangere, – saresti una cattiva patriota ed una vile femminuccia. Se il re fu sconfitto e tuo figlio ritorna a casa sano e salvo, tu non devi rallegrartene perché v’è al mondo una cosa che si chiama patria il cui bene è inseparabile da quello del re, alla quale tu devi tutto, anche il sangue dei tuoi figli …

La riflessione delle donne sulla guerra, ovviamente, non si è mai limitata ad una denuncia dei suoi orrori: la morte, la devastazione, l’imbarbarimento. Come stiamo sperimentando proprio in questi tempi, l’orrore da solo non è sufficiente e può addirittura diventare un arma potente nelle mani di chi la guerra la vuole vendere al pubblico come soluzione a tutti i problemi, riuscendo a rendere credibile il paradosso per cui ciò che crea l’orrore è l’unica strategia possibile per eliminarlo dalle nostre vite.

Opporsi alla guerra comporta per forza di cose una riflessione più ampia, che ricomprenda innanzi tutto l’humus che la nutre, tutti quegli “ideali” dei quali il guerrafondaio si riempie la bocca: patria, onore, sacrificio, senso del dovere e compagnia cantante.

Continua, Anna Maria Mozzoni in un testo, “Alle figlie del popolo”, scritto nel 1885:

La patria! Come spiegare a te con parole che tu possa capire e che tocchino a te e ai tuoi interessi, che cosa è questa terribile patria che incorona, strappando ti i figli, l’immane edificio dei tuoi dolori?
Per il re la patria è il trono, è il potere, è il fasto, è la lista civile, è il diritto di far piegare tutto quello che esiste nel regno ai suoi interessi – per il ricco la patria è la culla d’oro dove nacque, il palazzo dove alloggia senza lavorare, le ricchezze che possiede, le leggi che gli garantiscono le sue proprietà, il diritto di occupare i posti più alti, – per l’uomo di qualunque classe la patria è il paese nel quale egli può dare il suo voto per eleggere quelli che amministrano e che governano, è la legge che gli garantisce la padronanza della sua propria persona e della sua casa, che lo fa padrone dei tuoi figli e lo garantisce della tua stessa servitù ed assicura nelle sue mani la tua catena. Per te, o donna del popolo, che cosa è la patria? È il gendarme che viene a prendere tuo figlio per farlo soldato – è l’esattore che estorce la tassa del fuocatico dal tuo focolare quasi sempre spento – è la guardia daziaria che ti fruga indosso per assicurarsi che tu non abbi risparmiato qualche soldo sul pane sudato per i tuoi figli – è il lenone e la megera che, protetti dal governo, inseguono la tua figlia per trarla nelle loro reti – è la guardia di questura che la trascina all’ufficio sanitario – è il postribolo patentato che la ingoia – è la prigione – il sifilicomio – il patibolo, – è la legge che dà i tuoi figli in proprietà a tuo marito e che dichiara te stessa schiava e serva di lui. – Delle glorie di questa patria, delle sue gioie, dei suoi beni, dei suoi favori, neppure uno arriva fino a te.

Hanno scritto tanto, contro il militarismo e la guerra, le donne. Pochi conoscono i loro scritti, quasi nessuno ricorda l’impegno che misero nell’opporsi, con il pensiero e le azioni, alle logiche del conflitto armato.

E dire che ricordare e diffondere il loro lavoro favorirebbe l’umanità intera, liberando anche gli uomini dal giogo dell’esercito, del servizio di leva e l’illusione che esso abbia o abbia mai avuto una qualsivoglia valenza educativa.

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La pace tra cent’anni

Siamo in possesso di strumenti di sterminio così potenti che qualsiasi battaglia condotta da due nemici sarebbe soltanto un doppio suicidio. Se con la sola pressione di un bottone, a qualsiasi distanza, riesci a polverizzare qualsiasi massa di persone o edifici, non so in base a quali regole tattiche e strategiche, con quali mezzi, potrebbe ancora risolversi un duello tra due nazioni.

Bertha von Suttner, Der Friede in 100 Jahren

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Alcune considerazioni in calce all’articolo di Saviano sulla prostituzione

1.La rappresentazione della prostituzione come un fenomeno neutro rispetto al genere

Scrive Saviano:

Cosa hanno fatto molte/i sex workers durante le fasi più acute della pandemia? Avvicinate/i dal mondo del narcotraffico, divenute/i una sorta di piattaforma da cui andare e raccogliere ciò che non si poteva più trovare in strada. Quando ho provato ad intervistare alcune/i di loro, dopo la battuta iniziale «sei il principe azzurro o un giornalista che vuole informazioni?», mi hanno tutte/i descritto la loro verità. 

Come scriveva Mary Honeyball nella relazione su sfruttamento sessuale e prostituzione, e sulle loro conseguenze per la parità di genere:

considerato che la prostituzione e la prostituzione forzata sono fenomeni di genere aventi una dimensione globale, che coinvolgono circa 40-42 milioni di persone al mondo, la grande maggioranza delle persone che si prostituiscono è costituita da donne e ragazze minorenni, che quasi tutti i clienti sono uomini

raccontarla come se coinvolgesse uomini e donne in egual misura restituisce un’immagine falsata del fenomeno e contribuisce a falsare ogni analisi fondata su una simile premessa.

Ci comunicava il Codacons lo scorso anno che

Il business della prostituzione rappresenta un mercato che interessa circa 3 milioni di italiani che si rivolgono al sesso a pagamento e vede impegnate 90mila lavoratrici stabili (il 10% minorenni, il 55% ragazze straniere, provenienti principalmente dai paesi dell’Europa dell’Est e Africa), cui si aggiunge un esercito di 20mila operatrici occasionali che ricorrono al sesso via web solo in caso di necessità economiche o per reperire soldi per spese legate ad esigenze estemporanee (affitti, bollette, viaggi, abbigliamento, ecc.).

Non è una svista di Codacons, né un suo tentativo di smarcarsi dalla politically correctness del gender neutral, è un fatto.

D’altronde, basta avere gli occhi e farsi un giro per le strade.

Insomma, per fare un’analogia, è come se iniziassimo a parlare di violenza domestica scrivendo di assalitore/trici e aggrediti/dite.

C’è chi lo fa e li chiamiamo “papà separati“.

2. Lo sfruttamento come conseguenza dell’assenza di una adeguata regolamentazione della professione

Scrive Saviano:

Spesso si fa coincidere il/la sex worker con la vittima di tratta, con la vittima di schiavitù senza considerare che può essere soggetto a sfruttamento soprattutto chi è impiegato in ambiti privi di regolamentazione.

Ci sono un sacco di ambiti ben regolamentati nei quali regna lo sfruttamento. Per esempio la legge stabilisce delle regole precise per le assunzioni regolari dei braccianti agricoli e il caporalato è una pratica punita dalla legge. Non sto paragonando il bracciante agricolo alla prostituta, sto solo dicendo che l’esistenza di un Contratto Collettivo e un corpus di norme in difesa dei diritti del lavoratore non è di per sé garanzia di migliori condizioni per i soggetti più vulnerabili.

Detto questo, Saviano dovrebbe riflettere su una cosa: se è vero che non tutte le “lavoratrici del sesso” sono vittime di tratta, è altrettanto vero che la quasi totalità delle donne vittime di tratta finisce nel mercato del sesso:

Con riferimento specifico alla tratta al fine di sfruttamento lavorativo, circa 2/3 delle vittime sono maschi, 1/3 donne e bambini (nella tratta per lo sfruttamento sessuale, le dinamiche sono opposte, con oltre il 90% delle vittime identificate donne e bambine)

scriveva Repubblica la scorsa estate.

Scrive ancora Saviano:

il lavoro forzato e le pratiche assimilabili alla schiavitù possono verificarsi in molti mestieri; ma laddove le attività sono legali e il lavoro riconosciuto, le possibilità di denunciare e fermare le violazioni dei diritti e impedire gli abusi sono notevolmente maggiori.

Dati alla mano, sembra invece che i paesi che hanno regolamentato la prostituzione facciano esperienza di

a larger degree of reported human trafficking inflows

e che questo aumento del traffico di donne da immettere in un mercato del sesso più fiorente non è compensato dalla riduzione della domanda di donne trafficate a favore di quelle che esercitano legalmente.

Insomma, parliamo di ipotesi al momento non corroborate dalla ricerca sul rapporto fra legislazione e traffico di esseri umani.

3. Lo stigma

Il più grosso problema delle donno che si prostituiscono, secondo Saviano, sarebbe la Chiesa cattolica e quei bigotti che ne fanno una “questione morale”:

non ci emancipiamo dalla convinzione che la Chiesa abbia ancora la possibilità di occuparsi di come dovremmo vivere, quando invece è lo Stato che fallisce nel regolamentare ambiti in cui questa mancanza dà vita a sfruttamento, dolore, alimenta criminalità e illegalità. Ciò che dico è ancora più evidente con riguardo alla legislazione sulla prostituzione che in Italia è ferma agli anni Cinquanta e tende, sostanzialmente, alla criminalizzazione. L’approccio è sempre paternalistico, come se l’attenzione fosse tutta focalizzata su come si dovrebbe vivere, con annesso giudizio morale, piuttosto che sul provare – e magari riuscirci – a regolamentare una professione che ancora oggi non può essere riconosciuta ma solo stigmatizzata.

Chi affronta la prostituzione assumendo la prospettiva del cliente, ovvero si arma di massicce dosi di antiemetico e trascorre un po’ di tempo nei luoghi virtuali dove questi “evoluti signori” discutono del loro hobby – come ho fatto io dedicandomi per un periodo alla lettura del sito gnoccatravel.com (uno dei miei più post più letti di sempre è quello dedicato al signor Spaccaculi) – sa che è proprio da questi accaniti sostenitori della regolamentazione che arrivano le dosi più massicce di stigma e disprezzo nei confronti delle donne che si prostituiscono.

Infatti chi critica la prostituzione, o meglio, molti di quelli/e che si oppongono alla modifica dell’attuale legislazione in favore di una decriminalizzazione dello sfruttamento, non sta criticando la scelta di alcune donne, sta interrogando gli uomini/clienti sulla scelta di comprare la temporanea sospensione del diritto di quella donna di non acconsentire a ciò che le faranno nella consapevolezza che il piacere di lei non ha spazio alcuno nella contrattazione, e al contempo interroga gli intellettuali come Saviano sulla pervicacia con cui si intestardiscono ad affrontare il tema della prostituzione fingendo che non sia un fenomeno strettamente connesso alla deumanizzazione delle donne nel contesto di una società patriarcale.

Per approfondire:

Cosa ci dice la prostituzione della nostra cultura

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La violenza sugli uomini in una frase

Ieri mi hanno segnalato una “lodevole” iniziativa: il primo centro antiviolenza sugli uomini della Calabria.

Si tratta ovviamente di una iniziativa dal sapore Father’s Rights, che rimanda alla fallacia che si riscontra più spesso in questo tipo di contesto: ma parlare di violenza sulle donne non è discriminatorio nei confronti degli uomini?

[La risposta è NO, nel caso aveste dei dubbi in proposito.]

La presentazione cui vi rimando nel primo link (una roba per stomaci forti, io vi avverto) ha la sventura di capitare quasi in contemporanea con l’ennesimo orrendo delitto consumato all’interno di una separazione coniugale con figli.

Avrete letto, immagino, dei due bambini uccisi in provincia di Varese. Sappiamo poco, ancora, del delitto, ma c’è un dettaglio che collega immediatamente questo omicidio ai figlicidi che lo hanno preceduto: il citare come movente il fatto che l’uomo “Non accettava la separazione dalla moglie”.

Sempre la solita storia.

Veniamo al motivo per cui metto insieme i due eventi, la morte violenta e inaccettabile di due bambini e la signora Emmanuela Rovito che racconta commossa dei poveri papà vessati dalle crudeli e vendicative ex mogli.

Beh, perché ad un certo punto la signora Rovito, proprio all’inizio, dice una cosa che dovrebbe far rizzare a tutti le antenne.

Più o meno dovete scorrere fino al minuto 4:50 del video, nel quale la signora Rovito racconta di uno dei casi tipici che – a suo avviso – fa da sfondo alla terribile violenza sugli uomini perpetrata dalle donne, ovvero la tipica famiglia patriarcale: il padre breadwinner, la madre casalinga. Ad un certo punto, ci dice Rovito, la donna casalinga si trova ad affrontare la fine del rapporto con il marito e il problema di sopravvivere senza un lavoro. E’ a questo punto che, secondo Rovito, subentra l’egoismo: “io devo vedere come fare per vivere”, si dice la donna “egoista”.

Ecco, forse qualcuno lo definirebbe un lapsus, un errore verbale dovuto a qualcosa che ribolle nell’inconscio della signora, ma io non concordo sulla lettura freudiana di una frase del genere.

Secondo me Rovito lo pensa veramente quello che ha detto: una donna che si aspetta non solo di sopravvivere alla fine del rapporto di coppia con un uomo, ma che si pone addirittura l’obiettivo di continuare a vivere e lotta per una vita dignitosa e chissà, persino felice, è una donna egoista.

E la donna egoista porta il povero uomo vulnerabile al suicidio, motivo per cui occorre un centro antiviolenza per gli uomini (un dato, quello dei suicidi degli uomini provocati dall’egoismo delle ex mogli, sconfessato da tutti gli studi sulla materia, cioè non succede quello che racconta Rovito, non nella misura in cui una serie di eventi collocati in un certo momento storico può essere definita un fenomeno sociale).

Ecco, io vorrei che provaste a collocare l’una accanto all’altra queste due immagini, quella della madre egoista che vuole continuare a vivere anche dopo la fine del suo matrimonio, e il duplice omicidio di Mesenzana ad opera di un uomo che lo ha reputato inammissibile.

Quanto vi sembra produttiva di esiti auspicabili l’opera di stigmatizzazione del desiderio di continuare a vivere dopo la fine del matrimonio delle donne che una simile iniziativa porta avanti?

Io vi assicuro, sono certa della buona fede delle donne che hanno registrato questo video. Ciò non toglie che ascoltarlo oggi è come strofinare del sale su una ferita aperta.

Io invito queste donne a fermarsi a riflettere su quanto vanno diffondendo con estrema leggerezza.

Sulla stigmatizzazione delle ex mogli, alcuni spunti di riflessione:

Le ex mogli possono essere testimoni attendibili?

Andate a lavorare

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