I manifesti che la gente non vuole vedere – del povero uomo

Proprio ieri vi consigliavo la lettura del post di Massimo Lizzi a proposito della campagna “Punto su di te”.

Beh oggi ve lo consiglio di nuovo. Dovete proprio leggerlo.

Perché stamattina mi sono imbattuta nell’ennesima critica alle pubblicità progresso contro la violenza di genere, una lunghissima e coltissima dissertazione che ci spiega che il manifesto che rappresenta la violenza di genere non va bene.

Prima di addentrarmi nei meandri della mente dell’esperto affabulatore, vorrei fare una piccola premessa.

Qual è il problema che dobbiamo affrontare? La violenza contro le donne o le campagne pubblicitarie? La violenza contro le donne ci disturba tanto quanto ci disturbano i manifesti?

I manifesti degradano le donne (tutte le donne), ci viene detto da tutti questo esperti di comunicazione, perché le “rappresentano” come vittima (Questo sedicente e presunto femminismo che considera le donne solo come vittime).

Io sono dell’idea che sia la violenza a degradare le donne, non il manifesto.

Perché molte donne sono vittime di violenza, non è una rappresentazione: è la verità, che ci piaccia o no.

Prendiamo questa foto:

omofobiaLa notizia: a Roma l’ennesimo ragazzo che aspettava la metropolitana è stato aggredito e brutalmente picchiato semplicemente perché gay.

La pagina web ci mostra il volto tumefatto della vittima. Perché? Perché così, per chi legge, l’aggressione diventa reale. C’è il sangue, le tumefazioni, il dolore della persona che ha subito un atto ingiustificato e crudele.

A cosa serve questa immagine? A stimolare l’empatia nel lettore.

Che cos’è l’empatia? L’empatia, detto in modo semplice semplice, è la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato.

A tutti noi sarà capitato: vedo un livido e ricordo il mio livido, il livido di quella volta che mi sono male, con tutte le sensazioni che ho provato; vedo il sangue e ricordo quella volta che io ho perso sangue: quella persona sanguina come sanguino io, quella persona è come me, quella persona potrei essere io. Quella persona sono io.

E questo fa paura.

Il pensiero “quella persona potrei essere io” è un pensiero perturbante e istinitvamente lo si rifiuta: no, a me non potrebbe mai capitare, io non in pericolo, io sono al sicuro, a me non succederà mai. Allora si colpevolizza la vittima: sicuramente c’è in lui qualcosa che ha scatenato quello che ha subito, qualcosa che dentro di me non c’è.  Lui soffre, ma io non soffrirò mai così.

Lui è gay, io no. Sospiro di sollievo. Basta non mostrarsi troppo gay e non mi succederà nulla.

Picchiato perché straniero, picchiato perché omosessuale, picchiato perché drogato… Come se fossero tutte buone ragioni per picchiare qualcuno. Non lo sono, naturalmente, sono solo tutte buone ragioni per sentirsi al sicuro: non mi drogo, non sono gay, sono italiano, quindi posso dormire sonni tranquilli. Perché lui non è me.

E’ un meccanismo che chi si occupa di violenza di genere conosce bene: indossava la minigonna, aveva bevuto troppo, cosa faceva lì fuori a quell’ora?, non aveva lavato la tuta da calcetto, aveva aperto un nuovo profilo facebook

Questi non sono ottimi motivi per fare del male ad una donna: sono tanti piccoli (inutili) salvagenti gettati alle altre donne. Se non aprirai troppi profili facebook sarai al sicuro, se metti la gonna sotto al ginocchio non ti succederà niente, bevi con moderazione e tutto andrà bene.

Il web pullula di guide salvavita: quello che manca è una chiara e inequivocabile condanna della violenza contro un altro essere umano, chiunque egli sia, maschio o femmina, italiano o straniero, gay o etero, debole o forte.

E manca anche nell’articolo di Christian Raimo dal quale sono partita.

Vi cito alcune frasi:

“Di questo discorso sono protagonisti donne vittime e uomini violenti, o donne che dovrebbero denunciare e uomini buoni che sanno dare l’esempio. Non si parla di educazione; sostituita dalla denuncia. E si coccola questo pseudo-concetto molto moderno che si chiama “sensibilizzazione”, che sta a voler dire un po’ qualunque cosa. La violenza di genere in tutti i casi è vista come una sorta di malattia sociale da stigmatizzare socialmente per criminalizzarla. Nessuna parte di questo discorso prevede che tra uomini violenti e uomini buoni possa esistere una casistica più ampia; nessuna parte di questo discorso affronta la questione in senso culturale; nessuna parte di questo discorso prova a problematizzare la questione della violenza tout-court e della violenza di genere in particolare.”

Attenzione: l’articolo non parla di singoli uomini criminalizzati, non si preoccupa dello stigma sul singolo individuo! Quella che non deve essere criminalizzata è proprio la violenza di genere. Tutta la violenza di genere, a prescindere da chi la agisce.

E’ vero che all’interno della casistica ci sono una moltitudine di situazioni diverse, perché siamo tutti diversi, e non c’è niente di male ad approfondire ogni singolo caso con le sue peculiarità, ma per amore della complessità si fa passare subdolamente l’idea che la violenza di genere in quanto fenomeno non può essere “criminalizzata”.

Ma che significa criminalizzare?

La criminalizzazione in criminologia è quel processo mediante il quale i comportamenti individuali sono trasformati in atti criminali attraverso la legge e il sistema giurisdizionale. La norma penale identifica quei comportamenti che chiamiamo reati.

La giustificazione comunemente accettata per invocare il diritto penale contro un comportamento criminale è il danno procurato a terzi. Criminalizzare un dato comportamento, pertanto, non nasce dall’esigenza di punire il reo, quanto dalla necessità di tutelare le persone danneggiate da quel comportamento e dissuadere altri individui dal metterlo in atto.

Che cosa si intende per stigma?

La stigmatizzazione è quel fenomeno sociale che attribuisce una connotazione negativa a un membro (o a un gruppo) della comunità. Lo stigma è uno strumento utilizzato dalla comunità per identificare i soggetti definiti come devianti, quelli cioè che violano le norme accettate da una collettività.

Qui viene usato in realzione ad un comportamento, non ad un soggetto o ad un gruppo di persone. Ci viene detto: gli atti che possono essere identificati come “violenza di genere” non vanno stigmatizzati. Non gli individui, quindi, ma ciò che fanno.

E’ una distinzione importante.

Davvero non vogliamo stigmatizzare e criminalizzare “la violenza di genere”? Dobbiamo invece accettarla e stabilire che è un comportamento che non deve andare incontro a disapprovazione o condanna?

E’ questo il modo giusto per debellare la violenza?

Lo chiedo a voi.

Un’altra frase:

“È piuttosto deludente se non deprimente come una parte del nuovo femminismo, o meglio della ricezione nei media del nuovo femminismo, abbia di fatto ristretto una visione politica complessa a una mera “questione femminile”. Nel meno peggiore dei casi le donne vengono convocate a discutere di maternità, relazioni, crisi della famiglia…; nel peggiore vengono chiamate in causa come vittime di una società maschilista: persone da aiutare. Se è vero che nell’ultimo Parlamento, nelle giunte locali delle ultime elezioni, la componente femminile è leggermente maggiore delle precedenti legislature, è vero anche la prospettiva femminista è quasi completamente assente – ridotta appunto a una militanza testimoniale, da comunità ginocratica, genetica più che di genere, chiamata in causa al massimo per i femminicidi e simili.”

Come è deprimente, signore mie, parlare di maternità, relazioni, crisi della famiglia! Argomentucci da salotto per signorine: a chi frega davvero qualcosa della maternità? La politica è altro, è complessità, è problematizzazione… parlare di maternità o femminicidio relega le donne nella loro patetica “comunità ginocratica” (qualunque cosa si intenda con questa buffa espressione). Insomma, le femministe devono imparare ad occuparsi dei problemi nel loro complesso, devono entrare nella politica vera (quella che non si è mai occupata della maternità, visto che ancora oggi le donne vengono licenziate al ritorno dal viaggio di nozze), perché se insistono ad occuparsi della “ristretta questione femminile” (e siamo più del 50% della popolazione di questo paese, noi donne, ricordiamocelo, ma sempre una “ristretta questione” rimaniamo) non possono che suscitare gli sbadigli annoiati di chi riesce a farsi un quadro più ampio della faccenda.

Insomma le femministe parlino pure: ma non di questioni che riguardano “solo” le donne.

Di che cosa ci dovremmo occupare? Qual è l’argomento trascurato, ignorato, dimenticato?

Beh, l’uomo.

Un’altra frase:

La maggior parte dei maschi – e questa è la tragedia sociale più grave – non ha modelli maschili utili, plastici per un mondo che cambia, spesso non ha capacità di adattamento, di confronto con una qualunque crisi se non forme di backlash appunto – recupero dell’aggressività –, evocazioni di “uomini forti”, irrigidimento. E anche quando si accorge che i modelli maschili che ha a portata di mano sono inservibili, non sa come disfarsene né come sostituirli. Facciamo un esempio senza volare alto: prendiamo un rapporto di coppia che finisce. Beverly Fehr o Germain Dulac – citate da Volpato – mostrano come di fronte all’elaborazione di un lutto sentimentale, gli uomini sanno dare meno sostegno delle donne e in generale sono meno preparati dal punto di vista dell’intelligenza emotiva a superare la fine di una storia, o ad aiutare chi finisce una storia. Ecco che spesso, lo sappiamo bene come non solo tra i sessantenni, le depressioni maschili gravi nascono da un abbandono da cui anche a trent’anni non ci si riesce più a riprendere. Quanti miei coetanei, lasciati, ho visto chiudersi su se stessi, perdere il lavoro, tornare a casa dei genitori, cominciare a essere dipendenti dagli psicofarmaci…

Eccoci qua: la tragedia sociale più grave.

Lo so che il signor Raimo cita un sacco di testi femministi e si è letto il bellissimo libro della Volpato e Carla Lonzi e tutto quello che vi pare. Ma l’unica tragedia che gli interessa davvero, quella che sta in cima a tutte le tragedie, è la sofferenza dell’uomo.

L’uomo è da sempre il centro dell’universo e ancora non sono stati scritti abbastanza libri da convincerlo che quello non è il suo posto. E non lo è, signore, non lo è, anche se sta lì da un sacco di tempo, non ci dovrebbe proprio stare. Siamo noi che lo lasciamo in pace e ci limitiamo a girargli intorno, esibendo tutta la materna tolleranza e la disponibilità e la comprensione che da sempre ci contraddistinguono…

Se qualche paragrafo prima Raimo ha biasimato il vittimismo dei movimenti maschilisti come i “papà separati” (“Mettete a confronto gli slogan e le modalità di lotta politica del movimento dei forconi, per dire, e quello dei padri separati: una deflagrazione di una rabbia scomposta, vittimistica”), nelle conclusioni palesa di essere affetto dal medesimo vittimismo e ci descrive questo ometto sperduto, privo di modelli cui aggrapparsi, depresso, bamboccione, farmaco-dipendente e incapace di elaborare emotivamente qualsiasi tipo di frustrazione.

E’ probabile che non se ne renda neanche conto.

Come è probabile che non si renda neanche conto che rimprovera alle donne quello che da sempre fanno gli uomini:

“Questo sedicente e presunto femminismo che considera le donne solo come vittime”.

Noi, mio caro Raimo: dal tuo articolo si evince che sono gli uomini che riescono a percepirsi e a rappresentarsi solo come vittime e lo fanno perché non hanno il coraggio di assumersi la piena responsabilità delle loro azioni criminali.

Allora hanno bisogno di invocare il disagio, la mancanza di riferimenti positivi, di educazione, di solidarietà…

Come ho già scritto altrove, responsabilità significa essere consapevoli delle conseguenze delle proprie condotte. Sono responsabile delle mie azioni perché sono libero di scegliere, perché di fronte ad una alternativa (uccidere/non uccidere) prendo da solo una decisione, assumendo un rischio. Se dopo aver ucciso, o picchiato, o stuprato, rivendico il diritto a non essere criminalizzato (e quindi disapprovato), vuol dire che non ho mai superato quell’egocentrismo infantile che impedisce al bimbetto di comprendere che tutti gli esseri umani sono interconnessi tra di loro e che ogni azione una volta compiuta può espandersi nello spazio e prolungarsi nel tempo ben al di là dei confini della mia individualità, andando a modificare le vite degli altri.

E questa considerazione ci riporta a quei “danni procurati a terzi” della giurisprudenza.

L’uomo descritto da Raimo è un bambino che piagnucola “non volevo, non l’ho fatto apposta”, un Peter Pan insofferente all’età adulta che grida a gran voce “Non potevo fare altrimenti! Non è colpa mia!”

Io sono dell’idea che l’esistenza di tanti, tantissimi uomini che invece si comportano in modo non criminale (quegli uomini “buoni” dei manifesti che – guarda caso! – a Raimo non piacciono punto) basti a dimostrare che per l’uomo che la agisce la violenza di genere non è l’inevitabile conseguenza di un contesto sociale, bensì – in gran parte – una scelta individuale.

Per carità, ben venga l’educazione, ben venga l’auspicato “partire da sé”, è molto bello questo passo dell’articolo:

“Gli assenti ancora una volta, purtroppo viene da dire, sono stati gli uomini. Non sono mancati interventi pubblici, anche in luoghi importanti, ma la maggior parte di questi discorsi dei maschi, pur nella loro acutezza, mancano spesso dell’elemento essenziale che sarebbe utile per un dialogo: il partire da sé. Ossia: non tanto porsi il problema della violenza di genere, non tanto criticare i modelli di maschilismo invalsi, non tanto raccontare quando fummo colpevolmente cauti da non stare dalla parte delle donne vittime, quanto provare a esplorare la propria educazione sentimentale e sessuale maschile, la propria tensione verso la violenza, la propria somiglianza di genere rispetto ai questi incredibili bruti.

Ecco Raimo: parti da te e chiediti perché in mezzo a tanti bei discorsi, dopo aver letto tanti bei libri, senti ancora il bisogno di affermare che la violenza di genere non dovrebbe essere criminalizzata.

E’ ora che quel bambino piagnucoloso cresca. E non crescerà mai se non impara ad assumersi delle responsabilità.

Le donne cominciano ad essere stufe di fare da madri a uomini grandi e grossi.

Mi correggo: io sono stufa.

Informazioni su il ricciocorno schiattoso

Il ricciocorno schiattoso si dice sia stato avvistato in Svezia da persone assolutamente inattendibili, ma nonostante ciò non è famoso come Nessie.
Questa voce è stata pubblicata in attualità, in the spider's web, riflessioni, società e contrassegnata con , , , , , , , , . Contrassegna il permalink.

20 risposte a I manifesti che la gente non vuole vedere – del povero uomo

  1. Cinzia ha detto:

    Sottoscrivo tutto, dalla prima all’ultima parola.
    L’infantilismo affettivo con cui crescono molti uomini è il prodotto di un mammismo plurisecolare …
    tanto è vero che dalle mie parti un detto ricorda alle donne che “il marito è il bambino che ti rimane in casa”…
    Personalmente mi riconosco in una immagine di donna madre solo dei figli che ha partorito e con funzioni primarie (di accudimento e cura) che terminano con l’ingresso dei figli nell’adolescenza, tutto il resto lo considero ” relazioni non sane” ; e di poca salute relazionale in giro ce nè abbasta.
    Lo affermo perché sono testimone, come ho già avuto modo di scrivere e come non mi stancherò mai di ripetere, (felice testimone) di figure maschili sane, solide, evolute e capaci,
    A tutti i “lamentevoli” mi piace contrapporre gli esempi di quei compagni, padri, fratelli, amici, che lungi dall’essere figure passive e sottomesse, sanno esprimere la propria mascolinità attraverso la forza morale ed emotiva. Che sanno sostenere e accettano di essere sostenuti al bisogno, che sbagliano come tutti, ma che sanno riscattarsi. Che non hanno bisogno di colpevoli, ma di soluzioni.
    Alcuni di loro mi hanno salvato la vita.
    Alcuni di loro sono padri splendidi ed i migliori esempi maschili per le proprie figlie… essendo esperta del contrario, ne ho profonda stima e rispetto.
    Sono gli uomini belli e facili da amare. Sono quelli attorno a cui crescono donne forti sicure e serene e uomini affascinanti e coinvolgenti. Vorrei che i lamentosi si confrontassero con queste figure maschili.
    Se devo essere definita femminista , voglio esserlo perché amo questi uomini, e penso che ogni donna, ogni figlia, ogni figlio abbia dirittto ad un uomo così accanto.

  2. Paolo ha detto:

    osservazioni molto puntuali

  3. paolam ha detto:

    “L’uomo è da sempre il centro dell’universo e ancora non sono stati scritti abbastanza libri da convincerlo che quello non è il suo posto.” Tanto è vero che: “in mezzo a tanti bei discorsi, dopo aver letto tanti bei libri, senti ancora il bisogno di affermare che la violenza di genere non dovrebbe essere criminalizzata.” Le parole non bastano, i ragionamenti non bastano, l’evidenza dei concetti non basta. Si vede che bisogna passare all’azione. Ma temo questa azione possa essere agita efficacemente solo dalle donne. Gli uomini seguiranno, l’evidenza dei fatti.

  4. UmbertoPolitanoUS ha detto:

    Ai giornali di sinistra la violenza interessa solo se la subisce una donna o un omosessuale. Uomini e bambini possono impiccarsi

  5. maria serena ha detto:

    non ti preoccupare umberto,tanto vi trovano giustificazioni lo stesso…

  6. IDA ha detto:

    Premesso che queste campagne pubblicitarie, io non le capisco molto, sulla reale utilità, un po’ di più quella dell’Unità, ma l’ultima proprio, non riesco a capirla.. anche perché secondo me con queste campagne, non incidi nel tessuto culturale della società e non aggiungi nulla. La pubblicità funziona quando deve vendere, ma non riesce a fare cultura. Per il resto sono d’accordo, la vittima è vittima il carnefice è carnefice e se non lo criminalizzi cosa fai lo assolvi? Lo premi? Sull’articolo dell’”Europeo” sono d’accordo che in parlamento sia del tutto o quasi assente una prospettiva femminista. Ma credo anche nel paese, più che un movimento di liberazione della donna, siamo ridotte ad un movimento di difesa… manca una progettualità, guardare con una prospettiva diversa, ma asserragliate nel fortino a difendere quel poco che abbiamo e dover rispondere anche al fuoco amico. Temo che in questo periodo ci sia in atto un regolamento di conti verso le femministe. Sugli uomini; dopo aver sottoscritto quello che dice Cinzia, vorrei aggiungere solo, che i problemi di una donna, nelle stesse condizioni, sono superiori a qualsiasi uomo.. una donna della mia età, separata e sola deve stare molto attenta dove va e cosa fa, che tanto poi c’è sempre un cretino che crede a quello che sente dire in giro su di te e si sente autorizzato di romperti i coglioni.

    • L’utilità di queste campagne, a mio avviso, si desume dalle reazioni infastidite che provoca.
      Non piacciono non perché “non sono efficaci”? perché da cosa dovrebbe misurarsi, l’efficacia? Non vendono nulla…
      Si potrebbe andare a vedere se dopo le campagne sono aumentate le telefonate ai numeri dei centri antiviolenza pubblicizzati, ma non ho letto nessun dato in merito.
      La reazione più comune è questa: “e basta con queste donne coi lividi, con queste donne picchiate, umiliate, ferite, perseguitate, degradate…” e questo non riguarda l’ “efficacia” della campagna in nessun modo.
      Se la prendono con i manifesti. Ma le donne picchiate, umiliate, ferite, perseguitate, degradate ci sono davvero, sono in carne ed ossa in mezzo a noi, e rimangono nascoste per non mostrarli, quei lividi e quelle ferite.
      Credi che andare a scrivere ovunque che la donna con l’occhio nero è una donna debole, credi che disprezzare pubblicamente tutte queste immagini in cui appaiono donne “degradate” sia invece una strategia utile ad aiutare queste donne a trovare il coraggio di uscire allo scoperto e chiedere aiuto? Credi che biasimare “le donne che hanno bisogno di aiuto” possa contibuire in qualche modo a fare uscire queste donne dalla situazione in cui sono?
      No, le ricaccerà sempre più nell’oscurità, dove tutte sole rimarranno a leccarsi le ferite, perché venire alla luce è troppa vergogna.
      L’utilità di questi manifesti è raccontarci per quello che siamo: incapaci di guardare in faccia la violenza di genere per quella che è, incapaci di sentirci solidali con quella donna in difficoltà e per nulla disposti a tenderle una mano. Perché noi siamo quelli intelligenti, quelli che leggiamo un sacco, e, sotto sotto, quella donna che si fa mettere le mani addosso dal suo uomo la disprezziamo.
      Quei manifesti e la risposta collettiva che leggiamo un po’ ovunque ci raccontano di una società che per quella donna non prova la minima empatia, e le dice: non ti vogliamo vedere. Cavatela da sola. Le donne forti ce la fanno da sole e se tu non ce la fai, beh, forse stai bene dove stai.
      Questi manifesti danno fastidio: e allora forse sono utili, perché la lingua deve battere dove il dente duole.

      Inoltre: un consiglio che si legge spesso in giro è “ignorali, se ne parli dai loro visibilità” (riferito ai personaggi analoghi a quelli che hanno riempito i poster di scritte infamanti).
      Ignorare un problema è un modo costruttivo per risolverlo? Nascondere le cose che non vanno bene, renderle “meno visibili”, le farà sparire? Io non credo.
      A queste persone bisogna rispondere a tono, non fingere che non esistano. Perché chi tace – anche involontariamente – acconsente.

      • IDA ha detto:

        Si, su questo sono d’accordo, e come se uno deve raccontare una guerra, e non fa vedere macerie, sangue e morti, ma soldati alla mensa, che scherzano fra di loro, ecc..ecc.in pratica nessuno la vede… queste campagne, danno fastidio, perchè ultimamente se parli di qualsiasi problema delle donne, da molto fastidio.. le donne che non stanno al loro posto e il femminismo, ma non credo i manifesti in se..

      • IDA ha detto:

        Oggi mi sono messa a rileggere con più calma, e forse solo ora mi rendo conto di quello che dici, e sono del tutto d’accordo, e mi rendo conto di essere stata in qualche modo superficiale.. ho fatto un giro sul web, e mi ritrovo delle strane situazioni, da una parte si sostiene la libertà della prostituzione e si vuol mette in discussione la legge 194, che è inattuata, per via dell’obbiezione di coscienza. Di conseguenza si dovrebbe dire aboliamo o riduciamo l’obbiezione di coscienza. No! Mettiamo in discussione la legge, il che mi sembra assurdo. Ora questo attacco concentrico, a quel poco che rimane del movimento femminista, ritengo che possa avere un unico scopo, quello di ridurre all’isolamento e al silenzio le donne e le loro istanze. è una strategia, che ha sempre funzionato, prima con gli ambientalisti, poi con gli extracomunitari, i pacifisti, poi con una parte della sinistra, considerata massimalista e radicale, il movimento operaio e i sindacati, che in pratica sono stati ridotti all’isolamento totale e al silenzio. Ora tocca al femminismo. Tutto questo con un unico scopo, il dominio. E in questa ottica, acquistano senso anche quei manifesti..

  7. Cinzia ha detto:

    Sono di nuovo d’accordo con te Riccicorno.
    Il punto allo stato delle cose non è chiedersi quanto siano “efficaci” queste campagne, ma continuare a mantenere l’attenzione sul punto, fino a quando saremo socialmente e culturalmente pronti ad affrontare la questione in modo definitivo.
    Ad Ida (grazie a te per il supporto) vorrei dire che il fastidio che i cretini provocano è notevole, ma il cretinismo, non è una caratteristica di genere, né di sessismo e temo che, anche una volta sistemato il patriarcato, i cretini (maschi e femmine) saranno ancora fastidiosamente lì..
    L’irritazione anche scomposta che queste campagne provocano è un ottimo segnale, perché va a colpire il nocciolo nero della questione… questa campagna in particolare ha di positivo proprio l’impostazione emotiva, è un pugno nella pancia (metaforico) che però squarcia il velo di ipocrisia, con cui abbiamo socialmente nascosto fino ad ora la questione dei maltrattamenti di genere. Scardina il secolare patto di omertà (i panni sporchi si lavano in famiglia) che la società garantiva agli individui: vorrei sottolineare questo aspetto con forza, perché a mio avviso è una questione POLITICAMENTE basilare. Più una società è verticistica e gerarchica, più cioè la predominza del forte sul debole è costitutivo di una società, più lo stato che la governa agevolerà la gerarchizzazione della famiglia, che come sappiamo è (che ci piaccia o meno) il mattone fondativo della società stessa.
    Ho maturato questo concetto osservando i cambiamenti avvenuti negli ultimi quarant’anni. Quando arrivavo a scuola col mio bel corredo di ditate rosse sulla faccia o più spesso di strisciate da cinghia sulle gambe (privilegio che mio padre mi concedeva perché in quanto femmina si era reso conto dopo avermi spaccato un labbro e conseguente cicatrice, forse era meglio non rovinarmi la faccia per non deprezzarmi nel futuro), non uno, dico uno, degli adulti che ho incontrato ha mai sentito il bisogno di mostrare anche solo di essersi accorto di alcun che. Visto che non parlo di episodi, ma di anni, tempo per chiedermi perché, ne ho avuto. La risposta è che a mio padre era concesso dale regole non scritte della comunità, di sfogare in famiglia le frustrazioni e le fortissime pressioni sociali a cui era sottoposto.
    Era come se gli dicessero “è vero fuori casa conti poco o niente, ma dentro le tue stanze chiuse sei padrone assoluto, di questo puoi essere certo”:
    A quarant’anni di distanza se un bambino si presentasse a scuola con segni di cinghiate, nella normalità dei casi la cosa avrebbe conseguenze e gravi.E’ una conquista del nuovo diritto di famiglia, ottenuto dall’unico vero movimento sopravvissuto al ’68…ed al reflusso culturale successivo, cioè dal femminismo diffuso. Il padre non era più padrone (fra l’altro il più bel libro contro il patriarcato fù scritto in quegli anni da un ragazzo. PADRE PADRONE fù anche quello un pugno nello stomaco che determinò una svolta culturale)
    Ebbene il punto politico è questo, contestare, rifiutare, rinnegare, la predominanza di un genere sull’altro, SOVVERTIRE, l’odine costituito all’interno della famiglia, equivale a smantellare l’argine maestro che protegge la società verticistica e padronale.
    Famiglie democratiche e paritarie, in cui gli individui perseguono obbiettivi comuni di benessere e felicità, sono il germe di società realmente democratiche ed egalitarie.
    Potete immaginare nemico più pericoloso per i blocchi di potere costituito???
    Ecco perché se vogliamo partire per la rivoluzione dei generi, dobbiamo essere consapevoli di quello che andiamo a fare e delle conseguenze, nonchè delle estreme resistenze che incontreremo.
    Aggiungo infine che dobbiamo essere altrettanto pronte ad accettare di lottare per una idea di giustizia (digenere e di società), di cui probabilmente non saremo noi ad usufruire.
    Già tanto i nostri figli, FEMMINE e MASCHI. 😀

  8. IDA ha detto:

    Cinzia, condivido la tua analisi, e sono sicura anche io che ci sia una stretta relazione, tra la società e la famiglia.. una società autoritaria ha bisogno di una struttura familiare e relazionale autoritaria. In quanto ai cretini; ho sbagliato termine, ripensando alla frase di Oscar Wilde. There is no sin except stupidity. (Non c’è nessun peccato, salvo la stupidità). Perché Oscar Wilde, ha usato il termine stupidità (stupidity) e non uno dei suoi sinonimi, cretino o imbecille, che in inglese sono traducibili in ( idiot,)? Cretino = Affetto da cretinismo. (che è una malattia- Ritardo dello sviluppo mentale e fisico con insufficienza tiroidea.). Imbecille = Affetto da imbecillità. (Insufficienza congenita dello sviluppo psichico.) Stupidità = Che mostra scarsa intelligenza. Che esibisce scarsa intelligenza, ma non lo è. Quindi capiamo che cretino e imbecille, sono una condizione, (fisico – psichica) la stupidità è una scelta. Bene ora non so se capita solo a me, oppure ho qualche difetto, ma ultimamente attraggo solo gli stupidi.. gli altri nemmeno mi vedono.

    • Paolo ha detto:

      bè per fortuna e pur con molte contraddizioni e “nostalgismi” (tra cui quello delle associazioni dei padri separati) la società e la famiglia oggi sono generalmente e con eccezioni a volte tragiche, molto meno autoritarie rispetto all’epoca pre-68

      • Cinzia ha detto:

        E’ vero, verissimo Paolo, quello che sottolinei,sono stati fatti passi in avanti importanti dal ’75, quando il nuovo diritto di famiglia ha “democratizzato” i rapporti tra moglie e marito, tra genitori e figli.
        La scomparsa giuridica del “pater fimilia” ha permesso il fiorire di nuove figure paterne relazionalmente più libere, affettuose e arricchenti.
        Quando passo davanti le scuole della mia cittadina di provincia, e vedo le sfilze di questi papà multicolori, che aspettano i propri cuccioli, magari tenendone in braccio o nel passeggino uno più piccolo, a cui i figli corrono incontro, saltano loro in braccio e sbaciucchiandoli e ricoprendoli di racconti degli avvenimenti del giorno, penso che quarant’anni fa erano scene impensabili per noi bambini. Venivamo addestrati a tenere sopratutto nei confronti del padre, un contegno ed un comportamento riverenziale, perché in pubblico, più che mai, doveva essere chiaro chi comandava e chi obbediva. Allora le manifestazioni di affettività erano considerate debolezze che minavano l’autorità, oggi fortunatamente in molti abbiamo imparato che affetto e tenerezza liberamente espresse, non solo non minano l’autorevolezza genitoriale (dove c’è), ma anzi ne sono basi fondanti.insieme al rispetto e alla fermezza.
        Eppure Paolo questi passi importantissimi non hanno compiuto tutto il percorso,
        a volte ho l’impressione, che sia come nelle pedalate in salita, se ti fermi non solo non arrivi, ma torni indietro.
        Bisognerebbe riuscire a far comprendere a chi si ostina a difendere privilegi, che la perdita del potere assoluto può causare la conquista della felicità, perché personalmente non ho mai conosciuto un prepotente felice.

    • Cinzia ha detto:

      Ida comprendo benissimo di cosa parli e non credo assolutamente che ti debba porre la questione in termini di “cos’ho che non và”.
      Personalmente nonostante i dodici anni di singletudine consapevole e serena, in cui ho dato libero sfogo alla mia avventura materna nel privato, e al mio amore per l’insegnamento del teatro ai ragazzi nel sociale (che hanno riempito la mia vita di allegria e serenità), sono arrivata alla conclusione che le persone, uomini compresi, che possono fare la differenza nella vita, sono veramente poche. Se ci si deve incontrare accadrà.
      Per il resto cerco di tener presente che l’unica cosa che veramente mi appartiene è il tempo che mi è concesso, e non me lo farò mai più rubare da stupidi e stupidaggini.

  9. Pingback: Il sessismo benevolo del maschio fragile :

  10. Pingback: Il sessismo benevolo del maschio fragile » Massimo Lizzi

Lascia un commento